Nomina sunt consequentia rerum
Dante, (Vita Nuova XIII, 4), citando Giustiniano, Istituzioni II, 7, 3
Se cercate su Google le parole “Peppino Impastato”, il primo risultato che comparirà sulla finestra del vostro computer sarà probabilmente questo:
Giuseppe Impastato, detto Peppino, è stato un giornalista, conduttore radiofonico e attivista italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra, a seguito delle quali fu assassinato il 9 maggio 1978.
Se Internet fosse esistito nella prima metà degli anni ‘80, digitando le stesse parole chiave il risultato sarebbe stato differente. Qualcosa di questo genere:
Giuseppe Impastato, detto Peppino, è stato un giornalista, conduttore radiofonico e attivista italiano, membro di Democrazia Proletaria e noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra. Morì suicida il 9 maggio 1978, ucciso da una carica di tritolo che aveva posizionato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.
Figlio di una famiglia mafiosa da cui prese ben presto le distanze, Peppino dedicò la sua vita a denunciare l’ambiente in cui era cresciuto, spendendosi in attività di resistenza come la fondazione del circolo Musica e Cultura – culla di un collettivo femminista – e dell’emittente di controinformazione Radio Aut.
Peppino fu assassinato per ordine del boss mafioso Gaetano Badalamenti e del suo braccio destro Vito Palazzolo, ma la sua morte passò inosservata, essendo avvenuta – non casualmente – in concomitanza con il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani a Roma. Si parlò di suicidio, poi di attentato terroristico fallito di cui egli stesso rimase vittima. Solo grazie all’impegno della madre Felicia e del fratello Giovanni nel 1984 la morte di Peppino fu riconosciuta come un omicidio dalla matrice mafiosa, ma il caso fu archiviato nel 1994 per la presunta impossibilità di individuarne i colpevoli. Fu il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato a far riaprire il caso nel 1996, finalmente conclusosi con la condanna di Palazzolo e Badalamenti rispettivamente cinque e sei anni dopo.
Per dieci anni, dunque, questa storia è stata narrata con parole diverse da quelle a cui siamo abituate e abituati oggi. Per altri venti, quelle parole hanno aleggiato nell’aria senza acquisire ufficialità giudiziaria.
Perché le parole con cui raccontiamo le storie sono importanti?
Perché – ne abbiamo già parlato – parole e realtà sono legate da un doppio filo. Il linguaggio rispecchia e descrive la realtà, ma al contempo la giudica e la legittima, e dunque la condiziona. Dare un nome a qualcosa significa riconoscerne l’esistenza, connotandola secondo un preciso punto di vista. Chiamare qualcosa col proprio nome significa distinguerla da ciò che non è, tentare di assumerne il punto di vista.
Adombrare un’ingiustizia è quasi automatico, se non esistono parole per descriverla; normalizzarla è più semplice, se la si maschera dietro a parole accettabili.
Saper dare il giusto nome alle cose non è una minuzia tecnica o un dettaglio di stile, ma un atto di emancipazione da un punto di vista che si impone sul mondo e ci obbliga a guardarlo come se fosse di un solo colore.
Allargare la prospettiva, allora, non può prescindere da una libera informazione che, come un prisma di vetro, getti luce su tutto lo spettro di colori, li illumini, li esalti nella loro unica pluralità.
La Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, passata da poco meno di due settimane, non è una ricorrenza come un’altra, ma un monito per non permettere di gettare una patina uniforme su un mondo variopinto. Ed è proprio per assicurarsi che ciò non accada che l’organizzazione Reporters Without Borders (RSF) stila annualmente un indice, il World Press Freedom Index, che tiene traccia dello stato di salute del giornalismo nei vari paesi del mondo.
L’Italia, classificata al 41esimo posto su 180, presenta una situazione preoccupante. Personalmente, ho trovato particolarmente rilevante l’analisi sul contesto legislativo:
Una certa paralisi legislativa frena l'adozione di diverse proposte di legge volte a preservare e persino a migliorare la libertà giornalistica. Questo spiega in parte le limitazioni che alcuni reporter incontrano nel loro lavoro. La diffamazione non è ancora stata depenalizzata, e la pandemia ha reso più complesso e macchinoso l'accesso dei media nazionali ai dati in possesso dello Stato.
Queste riflessioni non dovrebbero suonare inconsuete: negli ultimi mesi abbiamo assistito ad articoli sequestrati e a conferenze stampa rifiutate e sostituite da un video postato sui social. Rivelando, in entrambi i casi, una certa insofferenza al dialogo, che per sua natura consiste in un incontro: διάλογος (diàlogos), da dià (attraverso) e logos (discorso), rimanda esattamente a due discorsi – e dunque, dicevamo, due punti di vista – che si attraversano ed entrano in conversazione, cogliendo gli spunti dell’altro e costruendo la propria risposta sulla base di questi.
Sostituire al dialogo la freddezza di un video registrato senza possibilità di contraddittorio, o addirittura mettere metaforicamente le manette a una fonte di informazione, tradisce una certa indisponibilità ad aprirsi ad altri punti di vista, una certa gelosia verso la propria postazione di vedetta (e conseguente prospettiva), una certa angoscia al solo pensiero che la lente attraverso cui si guarda il mondo venga macchiata da altri colori.
Bloccare le parole che deviano dal proprio rassicurante vocabolario, o tentare di omologarle ad esso, non è altro che un tentativo di bloccare qualsiasi cambiamento realmente trasformativo. D’altro canto, una finestra di Overton si apre cautamente, facendo scivolare parole e narrative tanto oppressive da suonare inverosimili dalla sfera dell’inaccettabilità a quella di un’estrema possibilità, poi lentamente a quella dell’accettabilità, e infine nell’immaginario collettivo – la normalizzazione, dicevamo.
Il rischio più grande, in una realtà sempre più omologante e omologata, è la tentazione di scendere a compromessi, cadendo nell’inganno che una battaglia escluda l’altra o che bisogni rinunciare a qualcosa per conquistare qualcos’altro. Il “tenetevi le vocali” di Ambra Angiolini sul palco del primo maggio – che per sua natura dovrebbe essere il palco di tutte le battaglie – è un discorso che, seppur con le migliori intenzioni, va proprio in questa direzione.
Perché una professione declinata al femminile altro non è che la rivendicazione di uno spazio che per molto tempo non è stato necessario condividere, di un’esistenza che per molto tempo è stata negata: non era necessario parlare di avvocate, ministre e ingegnere, perché esistevano solo avvocati, ministri e ingegneri. Quelle vocali, che sul palco romano sono state presentate come una trascurabile minuzia, sono una voce che faticosamente si fa largo per squarciare il velo dell’invisibilità.
Senza dimenticare, poi, che questa reticenza è altamente selettiva: non è mai stato un problema parlare di segretarie, parrucchiere e cameriere, perché quegli spazi non li ambiva nessuno. Una segretaria, una parrucchiera e una cameriera non minacciano la monocromatica struttura di potere come fanno un’avvocata, una ministra e un’ingegnera. Sono proprio le professioni cui viene – arbitrariamente – riconosciuto maggior prestigio che si difendono dalla declinazione al femminile, perché sono da sempre quelle a definire ciò che è accettabile, ciò che è normale, ciò che è possibile.
Questo pregiudizio di inadeguatezza viene spesso interiorizzato – o comunque tollerato – dalle stesse donne, che mandano giù il boccone amaro e parlano di se stesse come avvocati, ministri e ingegneri per paura di perdere credibilità.
Non molto diversamente, del resto, da una persona meridionale che maschera il suo accento o disprezza il suo dialetto per non apparire rozza o ignorante, mentre un milanese accentua il proprio come espressione di sofisticatezza. O da quella stessa persona meridionale che si definisce per approssimazione a un modello settentrionale, mentre quello stesso milanese cerca il più possibile di incarnarne lo stereotipo.
Insistere sulla lingua, allora, non è cosa da poco, perché familiarizzare con parole che suonano estranee vuol dire accogliere le corrispondenti realtà in un mondo che le ritiene ancora anomale. Le parole sono prospettive, colori, esistenze. E come tali consentono di occupare uno spazio non solo metaforico, ma tangibile: sono poltrone in Parlamento, cattedre in Università, terre da abitare e non solo da salutare dopo le vacanze.
La lingua è al contempo memoria e futuro, perché non lascia sbiadire le ingiustizie del passato e prospetta realtà dove queste non si ripetano. Riconosce, fa esistere e genera spazi in cui esistere.
Peppino è stato ammazzato, non si è fatto saltare in aria.
Una ministra è una ministra, non un ministro donna.
Catania è Catania, non la Milano del sud.
E finché non ci renderemo conto che queste battaglie non possono prescindere l’una dall’altra, saremo ben lontan* da un mondo a colori.
L’illustrazione di questa settimana, dal titolo Pascere animam, è stata realizzata da Emanuele:
Il papavero con il volto della ragazza è il simbolo della resistenza.
La ragazza in cima alla scala rappresenta il desiderio di elevarsi dalla propria condizione attuale, con in mano l'innaffiatoio con cui nutre la propria vita interiore.
I consigli di questa settimana:
Da poco meno di due mesi, la sociolinguista Vera Gheno ha dato vita ad Amare parole, un podcast settimanale del Post dove parla proprio del linguaggio e del suo impatto sulla realtà: perché le parole sanno essere amare, ma possono essere un potente strumento d’amore.
In Sicilia si dice che la bona fimmina è chidda ‘ca nun parra (“la donna buona è quella che non parla”). Per questo motivo, Claudia Fauzia ha creato il progetto la malafimmina: quella che parla e, parlando, getta luce su realtà invisibili, perché ai margini di uno standard che non sembra vederle.
Nel TED Talk How language shapes the way we think, la psicologa bielorussa Lera Boroditsky osserva come il modo in cui guardiamo e cataloghiamo la realtà che ci circonda dipende dalla lingua molto più di quanto siamo abituate e abituati a pensare.
Nel 2019, Corinna De Cesare ha deciso di lasciare il Corriere della Sera per fondare uno spazio libero dalle dinamiche che, come abbiamo visto sopra, tengono in gabbia il giornalismo italiano. Il risultato è stato thePeriod, un prezioso progetto editoriale di informazione da un punto di vista femminista.
Per un’analisi della comunicazione portata avanti sui giornali italiani - con particolare attenzione al modo in cui le donne vengono narrate - consiglio caldamente il profilo Instagram ladonnaacaso.
Se vi va di raccontarci qualche episodio in cui le parole hanno fatto la differenza, potete scriverci come sempre all’indirizzo redazione@educationaround.org
Per non perdervi nessun aggiornamento, potete seguirci sui nostri canali social: