Ti priego dirmi, o Dea, se veramente
Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco.
E la Dea, che rivolge azzurri i lumi:
Tu mai te stesso non oblii.Odissea, 386-389
Issare le vele o fermarsi nel nido? Salpare o restare? Accogliere o resistere?
Resistere è una parola interessante, perché deriva da re che indica una ripetizione, e sistere che vuol dire fermarsi, ma anche consolidare, ma anche impedire di avanzare. Resistere significa quindi riaffermare qualcosa, o qualcuno.
Cosa? Chi?
Facciamo un passo indietro. Spesso si crede di dover resistere il diverso per non perdersi, o di dover resistere un cambiamento per mantenere uno status quo che si ritiene giusto o conveniente. In generale, si resistono degli sforzi di apertura per non smarrirsi tra le infinite possibilità che questi rischiano di dischiudere. Lo abbiamo visto qualche giorno fa, quando un bando emanato dal Ministero dell’Istruzione ha scatenato una corsa alle firme contro la e capovolta che fa tremare l’Italia.
Ora torniamo alla resistenza. Resistere, in questo caso, significa riaffermare se stessi.
C’è un tema da mettere a fuoco, e soprattutto di cui mettere a fuoco la non-inevitabilità. Sottintesa nella nozione di resistenza in questo senso è l’idea di un compromesso: accogliere l’altro implica sacrificare una parte di sé. Aprirsi al diverso significa perdersi. Io e l’Altro siamo due poli inconciliabili in un gioco a somma zero.
Pare evidente, quindi, che la petizione contro lo schwa non sia una lotta per la lingua, ma per la propria identità. Per preservare non l’italiano, ma se stessi tramite la rappresentazione linguistica. Del resto, l’abbiamo già detto: esistere significa essere riconosciuti, e la prima forma di riconoscimento è il linguaggio. Ti do un nome, quindi riconosco che esisti. Ti identifico con un termine che ti dia la possibilità di esprimerti, ti distinguo da ciò che non sei per affermare la tua individualità. Privare di un mezzo di identificazione, quindi, vuol dire anche privare di risorse interpretative che permettano di mettere a fuoco la propria esistenza. Un problema ermeneutico diventa, così, una questione di (in)giustizia sociale.
Una paura di questo tipo si fonda sul rifiuto di ammettere che l’identità – come la lingua – non è monolitica, e ha bisogno dell’Altro – con la A maiuscola – per evolversi e costruirsi.
Allora torna la domanda: come accogliere l’Altro senza perdersi in esso?
Ci si perde quando non si conosce il luogo in cui ci si muove, quando si offusca la vista, quando è troppo buio per vedere dove si mettono i piedi. Ci si perde, insomma, quando mancano delle direzioni chiare sul percorso da seguire. Non esistono luoghi che fanno perdere; esistono luoghi che non conosciamo abbastanza per orientarci. Perdersi, dunque, dice ben poco del luogo in cui ci si trova, e molto di noi stessi. Avere paura dell’Altro si riduce, quindi, ad una paura di ciò che di noi stessi non conosciamo ancora.
Ma perché la paura non diventi fobia, è importante fare un passo avanti e guardarla in faccia, guardarci in faccia. E farci una semplice domanda: chi sono e chi voglio essere?
L’identità, l’abbiamo detto, si costruisce, e come ogni edificio ha delle pietre angolari che tengono in piedi l’intera struttura. Costruire se stessi, diventare se stessi, parte dunque da una distinzione tra negoziabilità.
Cosa, in me, è non-negoziabile?
È la domanda che getta le basi, che dà solidità alle proprie idee e definisce chi vogliamo essere, senza se e senza ma. È la domanda che permette di entrare in contatto con la propria Unicità, di prendersene cura e assumersene la responsabilità.
Cosa sono disposta/o a negoziare?
Abbracciare la propria Unicità permette di forgiare uno spazio di dialogo e confronto con dei confini ben definiti (dal non-negoziabile di cui sopra), ma all’interno del quale ogni movimento è concesso, ogni fluidità si incrocia con altre, ogni flessibilità non implica una rinuncia a ciò che si è. Sapersi unici significa anche riconoscere l’Unicità altrui, camminare su un terreno solido ma cangiante, aprirsi a nuovi percorsi senza dimenticare la strada di casa.
Muoversi dialetticamente è l’intreccio tra l’Uno e il suo opposto, tra me e l’Altro, tra due Unicità che intessono una tela comune, ma sono capaci di distinguere i propri fili e riprendere le proprie fila. Dialettica è uno spazio di crescita in cui Unicità differenti si consolidano e germogliano tanto individualmente quanto insieme, come Uno e come Tutto. Dialettica è il non-luogo in cui l’Uno non si sacrifica per far parte del Tutto, non annichilisce la propria Unicità, ma anzi trova in esso un mezzo infinitamente potente per esprimerla. E dico non-luogo, perché occupare una posizione significa già delimitare un proprio spazio, costruire una propria fortezza per difendersi dall’Altro. Muoversi dialetticamente, invece, presuppone che già si conosca il proprio spazio, e lo si conosca abbastanza da poterlo lasciare senza sentirsi minacciati.
Essere a proprio agio nella propria Unicità, quindi, è ciò che permette di scavalcarne i confini e approcciare ciò che sta al di fuori di essa. E soprattutto permette di abbracciare battaglie non nostre, e usare la nostra voce per coloro che non riescono a farsi sentire – perché, banalmente, non ne viene riconosciuta l’esistenza.
Far parte di una collettività – a vario titolo: sia questa un’associazione, una società, una istituzione, una squadra di pallavolo – implica incontrarsi e scontrarsi con opinioni diverse. Implica, soprattutto, accoglierle senza snaturarsi, ascoltarle ed essere disposti a negoziare, sia questo per ribadire le proprie convinzioni o per metterle alla prova con sguardi diversi. È importante, però, essere disposti ad uscire dal proprio nido, provare ad assumere quello sguardo.
Bisogna essere pronti a lasciare la propria Itaca con le sue sicurezze, spiegare le vele e salpare alla scoperta di porti nuovi e sconosciuti. E farlo senza paura di perdersi, perché se si ha una bussola che punta sempre alla propria Unicità, l’Altro non è un sentiero di perdizione ma una strada nuova da esplorare. Entrare nella dimensione dialettica dell’Incognito è ciò che consente “ad ogni viaggio reinventarsi un mito / a ogni incontro ridisegnare il mondo”. Che permette di arricchire la propria Unicità tramite quella dell’Altro, di esplorare nuovi mari e nuove terre, ma non dimenticare mai dov’è la propria Itaca.
Muoversi dialetticamente significa sapere che giochiamo tutti allo stesso gioco, anche se impieghiamo strategie diverse. Significa saper stare dentro spazi in cui non tutti la pensano allo stesso modo, ma tutti condividono qualcosa. Significa individuare il non-negoziabile e negoziare sul resto, confrontarsi senza scontrarsi. Ma significa anche saper ascoltare in silenzio, senza aver necessariamente qualcosa da dire; lasciare il palco a chi vive in prima persona la propria Unicità, non pretendere di esprimerla al loro posto (e soprattutto di strumentalizzarla dietro un attivismo di facciata).
Significa che si può scegliere di abbracciare o no una battaglia, ma che questo non impedisce di ascoltare chi lo fa senza remare contro.
Se lo schwa sia linguisticamente accettabile, lasciamolo dire ai linguisti. Ciò che possiamo riconoscere, però, è il suo significato politico e il suo valore che, seppur indifferente ad alcuni, è una vittoria per tanti altri.
Opporre una battaglia non propria – soprattutto se essa non avviene a danno altrui – dice poco sulla lingua, ma molto su quanto si è a proprio agio con se stessi.
Ciò che bisognerebbe tenere a mente, dunque, è che vivere con Altri significa sapersi Uno, ma sapersi fare Centomila. Se si ha paura di perdersi tra la folla, allora forse si è ancora Nessuno.
L’illustrazione che vi proponiamo in questo numero è stata realizzata da Caterina, che la intitola “Don't let fear turn off your light” (“Non lasciare che la paura spenga la tua luce”). Il titolo la dice già lunga, ma la potenza della sua illustrazione va oltre: l’Altro è già in noi, ed è da noi stessi che si libera un mondo intero di significati e relazioni. Si parte da Itaca, si comincia dalla propria Unicità, ma se ci lasciamo trasportare da essa troveremo altri centomila percorsi da esplorare. È la mano della paura che, coprendoci gli occhi, ci offusca la vista, ci fa traballare davanti all’Altro, e così ci costringe a restare Nessuno.
Questa settimana, per fortuna, di risorse da consigliarvi ne abbiamo a volontà:
Sulla relazione tra costruzione dell’identità e costruzione della lingua, Miranda Fricker ha teorizzato una nuova forma di ingiustizia, legata alla sfera della conoscenza. Ne ha scritto nel suo libro Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing. Purtroppo al momento non esiste una traduzione in italiano.
A proposito di Sahebi, che vi segnalavo nello scorso numero, l’ultimo episodio del suo nuovo podcast Melma tocca tutti gli argomenti di cui abbiamo parlato in questo numero. Ne chiacchiera con Pietro Baroni, co-conduttore del podcast, e Diego Passoni, conduttore televisivo e radiofonico e ospite della puntata.
Riprendo i versi che citavo prima e colgo l’occasione per consigliarvi – finalmente – tutto l’album di Guccini: si chiama Ritratti e contiene delle vere e proprie poesie (come tutte le sue canzoni, ndr.). Per invogliarvi, vi lascio qui altri versi della canzone Odysseus: “Solo leggende perse nella notte / Perenne di chi un giorno mi ha cantato / Donandomi però un'eterna vita / Racchiusa in versi, in ritmi, in una rima / Dandomi ancora la gioia infinita / Di entrare in porti sconosciuti prima”.
Questo articolo di Cristiana De Santis non mi convince del tutto, ma ho pensato che, alla luce di ciò che ci siamo detti sopra, possa avere senso dare spazio anche ai pensieri di chi sta - con cognizione di causa - sull’altro versante del dibattito. Senza alzare la voce e senza opporre le battaglie altrui, in questo articolo vengono sollevate obiezioni nel tentativo di instaurare un dialogo intelligente e ragionato (la posizione specifica, ripeto, può poi essere più o meno condivisibile).
Ciao a tutti e a tutte, a tutt, a tuttu, a tutt*, a tutt3 e a tuttə. Alla prossima!
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