Sapete come nasce un numero di questa newsletter?
Proprio come una chiacchiera: mi siedo alla scrivania, apro il mio solito quadernetto e comincio a scrivere pensieri in libertà. Sulla prima stesura non ci sono tagli o ripensamenti, solo un lungo flusso di riflessioni con qualche asterisco qua e là.
Oggi, per la prima volta in più di un anno, ho strappato la pagina su cui stavo scrivendo. Perché? Non sapevo da dove iniziare. Ho provato a scarabocchiare qualcosa, poi qualcos’altro, ma niente. Non avevo versi di canzoni o citazioni accattivanti, e nemmeno una delle mie solite etimologie.
Quindi, come ogni conversazione un po’ stanca, alla fine di una lunga giornata, anche questa partirà da qualcosa di molto più banale: avete ascoltato la canzone di Shakira contro Piquè?
Io no, amiche e amici, perché nel gossip da quattro soldi non trovo nulla di interessante. Ma nonostante tutti i miei tentativi di restare fuori dalla questione non sono riuscita ad evitare anche di leggere dei pezzi di testo, protagonisti dell’internet negli ultimi giorni.
Uno, in particolare, mi è saltato all’occhio: “Le donne non piangono più, le donne fatturano”
(Eccola la citazione di oggi, vedete che l’abbiamo trovata?)
Al di là della divisione del grande pubblico – su cui, mi perdonerete, sorvolerò –, è interessante notare come l’intenzione della cantante (e così la percezione di parte del pubblico) fosse quella di rivendicare la propria emancipazione, di affermare una forma di femminismo basata sul superamento del concetto di donna tradizionalmente inteso.
Ma superamento verso cosa?
L’idea di liberazione dagli stereotipi di genere – delicatezza e cura da un lato, istinto materno primordiale, quasi feroce, dall’altro – è stata ed è ancora spesso percepita come una negazione del femminile. Al suo posto un'appropriazione di ruoli e posizioni tradizionalmente maschili, così come sono.
Prendendo, in questo modo, il posto degli uomini, ma non agli uomini.
Mi spiego meglio. Avete presente tutti i discorsi su una donna al Quirinale, una donna presidente del Parlamento Europeo, una donna primo ministro?
La questione era in primo piano quel famoso 25 settembre, che vi avevo promesso sarebbe stato centrale nelle nostre chiacchiere di questo nuovo anno (promessa mantenuta, per ora).
Ecco, non nego che la prima donna Presidente del Consiglio abbia introdotto un cambiamento. Ma la domanda (secondo me) interessante da porsi è un’altra: si tratta di un cambiamento trasformativo?
Del resto, si può cambiare qualcosa con qualcos’altro anche senza che quest’ultimo differisca sostanzialmente da ciò che si cambia. Cambiamento è, in sé, una parola piuttosto vaga:
cam·bia·mén·to s.m. Sostituzione o avvicendamento che riguarda in tutto o in parte la sostanza o l'aspetto di qualcosa o di qualcuno.
(Eccola, anche la prima definizione del giorno)
Un cambiamento, quindi, può essere prettamente cosmetico: cambia la forma, ma non la sostanza.
Diversa è una trasformazione:
trasformazióne s. f. L’atto, l’azione o l’operazione di trasformare, il fatto di trasformarsi o di venire trasformato, che comporta un cambiamento, per lo più profondo e definitivo, di forma, aspetto, strutture o di altre qualità e caratteristiche.
La profondità della trasformazione pone l’accento sulla discontinuità apportata dal cambiamento, dal rovesciamento di strutture esistenti per introdurne altre, nuove, radicalmente differenti.
Angela Davis scriveva che “radicale significa semplicemente cogliere le cose alla loro radice”. Un cambiamento radicale – trasformativo –, dunque, deve agire alla radice del modello su cui interviene, e non semplicemente sulla sua facciata più esterna.
Una donna al potere, quindi, rappresenta un cambiamento trasformativo quando estirpa le radici stesse di quel potere. Quando ne sradica la competitività per piantare il seme della solidarietà, quando rovescia la sopraffazione di uno per generare energia collettiva, quando rompe la bolla di privilegio e lo rende possibilità per tutti. Rendendolo non più potere sugli altri, ma potere per gli altri.
Inserire “una donna”, una qualsiasi, al vertice di una gerarchia non apporta necessariamente una trasformazione, perché chi ci arriva ha già tacitamente accettato di non disturbare le radici secolari che riposano indisturbate ai piedi della piramide. Perché chi potrebbe accedervi – e le custodiscono gelosamente, i Cerbero dei nostri tempi – fa già una selezione all’entrata.
Le donne vengono prese sul serio solo se “mascolinizzate”. Perché, se così non fossero, allora sarebbero inutilizzabili: costantemente oscillanti tra l’istinto accudente di Meg March e la ferocia primordiale di Medea, estremamente deboli o tremendamente dissennate, come potrebbero guidare un Paese, dare un esempio?
L’inserimento nella struttura del potere, allora, avviene ancora troppo spesso a costo di rinunciare alla propria femminilità, di domarla, di ingabbiarla nel modello iper-razionale, padronale, prevaricante degli uomini.
Quindi una donna al potere è sempre una cattiva notizia? Certo che no.
Serve, però, una certa tensione emancipatoria, determinata a portare trasformazione oltre il semplice cambiamento, che non dipende tanto da chi detiene il potere quanto da come lo si esercita. A quel punto una donna al potere – ma non una qualsiasi – acquisirebbe un significato preciso e ancor più forte, perché sarebbe il risultato di una responsabilizzazione collettiva. Di un movimento che nella sua interezza sceglie la propria voce, perché sa che quella voce parlerà per tutti e non solo per se stessa.
Perché le istanze di ciascuno riguardano tutti, anche se non tutti ne sono toccati direttamente.
Serve allora ragionare in maniera intersezionale, cioè guardando a ogni sfumatura dell’oppressione non come isolata dalle altre, ma anzi vitalmente intrecciata con esse. Ricordando che ogni soggetto non è un’unità identica di una categoria omogenea, ma il risultato di una stratificazione di esperienze che ne determinano l’unicità e al tempo stesso la profonda comunità con chi, di quell’esperienza, condivide almeno un aspetto. Perché se la discriminazione attraversa uno spettro variegato – dal genere all’etnia, dalla classe sociale alle abilità fisiche – allora le battaglie di uno si intrecceranno con quelle di tutti, e l’unico modo per uscire dalle proprie gabbie è farlo insieme.
A quel punto, allora, si parlerà di trasformazione. Ma da quel punto siamo ancora lontani.
L’illustrazione di questo numero è stata realizzata da Arianna, che ci parla dell’associazione culturale tra capelli e genere, tra estetica e potere, di una femminilità quasi imbrigliata dalla sua stessa chioma. E racconta la rivoluzione una ciocca di capelli alla volta:
Questa a cui tengo molto, è una delle cinque illustrazioni finaliste della Bologna Children’s Book Fair 2021. Il tema è quello dei capelli delle donne (sono cresciuta in una parrucchieria). I capelli rappresentano la femminilità, mai come ora, dietro questa "semplice" azione di tagliare i capelli, si nasconde un significato più profondo, culturale. Anche la capigliatura di una donna quindi può comunicare molto sulla propria personalità.
Con questo numero tornano anche i soliti consigli della settimana:
Sulla contrapposizione tra femminilità e ribelle e dominazione attraverso standard maschili, vi consiglio il libro “Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne” di Jude Ellison Sady Doyle. Spaziando dal mito alla cronaca nera, dalla cultura popolare al cinema anni ‘70, l’autrice fornisce una lunga serie di esempi di un tentativo di soggiogazione scatenato, in primis, dalla paura del genere femminile.
A proposito di Angela Davis, il suo libro “Donne, razza e classe”, da cui proviene la frase citata nel testo.
Il discorso di una donna, ma non una qualsiasi. Ve ne lascio qui un estratto, ma consiglio vivamente l’ascolto integrale:
Ma in particolare comprenderete la mia emozione per essere la prima donna nella storia d’Italia a ricoprire una delle più alte cariche dello Stato. Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione. Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita.
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