Nello scorso numero di questa newsletter abbiamo seguito i sassolini che rotolano dalla cima della montagna e ci finiscono in mezzo ai piedi. Oggi cambiamo prospettiva, ed esploriamo cosa sta ai piedi di quella montagna.
La scuola per come la conosciamo procede in maniera cumulativa: alle elementari impari a fare i calcoli, alle medie li metti insieme per risolvere delle espressioni, al liceo compari due espressioni in un’equazione, e così via. Quello che impari prima fa da base di partenza per quello che viene dopo, che ha bisogno di quel supporto per essere costruito.
Alcune cose, quindi, si danno per scontate andando avanti nel tempo, e diventano premesse che non vengono più messe in dubbio. Si procede, dunque, ceteris paribus, letteralmente “a parità di altre condizioni”, o “stanti così le cose”.
Il fisico e filosofo statunitense Thomas Kuhn – bersaglio polemico della mia tesi di laurea, ndr. – diceva che per generare progresso bisogna dare per scontato un paradigma di presupposti, visioni del mondo, teorie e strumenti universalmente accettati. Come si può andare nel vivo delle questioni, sosteneva, se passiamo tutto il tempo a dibattere sulle basi?
Nel paradigma di Kuhn, quindi, non entravano mai domande scomode. O almeno non troppo scomode, dato che nessuna di esse metteva in discussione gli aspetti ritenuti fondamentali. Se riuscivano a farsi largo, diceva, ci si trovava già in circostanze così eccezionali da far inevitabilmente scoppiare una rivoluzione scientifica.
Io adesso vi propongo di rovesciare la domanda: stanti così le cose, perché le cose stanno così?
Vi invito a dare un’occhiata ai piedi di quella montagna, perché è lì che si sedimenta tutto ciò che nel tempo si è accumulato fino a formare uno strato omogeneo. Un po’ come quello sgabuzzino che riapri dopo un anno e ci trovi dentro un pacco di biscotti ormai frantumati, un cerotto, la candelina usata di due compleanni fa che “volevi tenere per ricordo” e quel caricabatterie che non trovavi dall’anno scorso – che, naturalmente, solleva la domanda di rito: e questo come ci è finito qui?
Una domanda la cui risposta è un mistero irrisolvibile, uno di quelli che pur ripercorrendo ogni giorno della tua vita nell’ultimo anno non riesci a rintracciare quel singolo momento in cui il tuo cervello può averti dato il comando di depositare quell’oggetto in quell’esatto luogo.
Del resto, le domande più difficili a cui rispondere sono proprio quelle più – apparentemente – banali: avete mai incontrato un interrogatore più temibile di un bambino di tre anni che, ad ogni affermazione, incalza con la sua sfilza di “perché?”?
Se ci riflettiamo un attimo, certe cose sono così sedimentate nella nostra visione del mondo da non saper neanche come ci siano finite. Sono quel ceteris paribus, quelle altre condizioni che restano invariate, quegli assunti che nessuno scomoda mai.
Eppure, a volte varrebbe la pena scomodarli. Ne varrebbe la pena perché tutto ciò che non si mette in dubbio è spesso il frutto di dinamiche a loro volta sedimentate, di schemi di pensiero, di categorie concettuali profondamente radicate nella società che abitiamo. E, lo abbiamo detto tante volte, la società che abitiamo è un sistema con le sue narrative, spesso scritte a penna blu, spesso impugnata da chi detiene il potere.
Penso che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito dire che la storia la scrivono i vincitori. Questo vuol dire spesso proporre una visione polarizzata degli eventi, che elimina il dilemma e la conflittualità profonda tra due opzioni, e ci presenta i fatti come l’unica alternativa possibile. Pensate ai poemi omerici: nell’Odissea tutti fanno il tifo per Ulisse, ma non sempre ci si ricorda che Ulisse faceva parte dello schieramento degli Achei, che non tutti appoggiano leggendo l’Iliade.
Nota a margine: nella stesura di questa newsletter mi sono trovata io stessa a mettere in dubbio una convinzione che non pensavo potesse mai essere messa in dubbio. Un vero e proprio crollo delle certezze. Ero partita dal presupposto che tutti tifassero per i Troiani, ma in un sondaggio che ho avviato – palesemente pro forma – sono venuta a sapere che circa il 60% dei votanti appoggiava gli Achei. A queste persone ho solo una cosa da dire: siete pazzi?
Ma torniamo a Ulisse. Il cambio di prospettiva, che porta anche i fan più sfegatati dei Troiani a fare il tifo per lui, è figlia di una storia riscritta dai vincitori: una volta finita la guerra il vittorioso si rimette in viaggio, e a nessuno passa più per la testa di osteggiarlo nella sua avventura. Lui ha vinto, è un eroe, è il buono che si mette davanti ad una nuova missione una volta conclusa quella precedente.
Ma a volte quelle visioni del mondo bisogna metterle in dubbio.
Ad esempio, fino a qualche decennio fa non ci si chiedeva neanche se fosse giusto che il pater familias fosse rispettato fino quasi alla venerazione, che spettasse a lui portare il pane in casa, mentre la donna poteva solo ricoprire il ruolo di guardiana della casa e dei figli. È servita una rivoluzione per avviare un cambiamento – proprio come diceva Kuhn.
Ma vogliamo che sia sempre così? Bisogna sempre adottare misure estreme per portare avanti un cambiamento? E se invece quelle domande tanto banali quanto scomode ce le ponessimo ogni giorno?
E questa domanda la rivolgo in primo luogo all’istituzione scolastica: se la scuola non costruisse sempre e solo secondo la logica del ceteris paribus, ma diventasse invece un luogo dove sfidare le convenzioni?
Per tornare al mondo greco, Socrate educava i suoi allievi senza mai fornire risposte, ma ponendo domande incalzanti che scuotevano chiedendo perché, andavano a fondo dei pregiudizi, ribaltavano convinzioni e convenzioni. Cosa succederebbe se la scuola diventasse un po’ più socratica?
Cosa succederebbe se, invece di accumulare sempre e solo sulla vetta della montagna, ogni tanto osservassimo cosa sta ai suoi piedi? Se invece di informare si ritornasse a formare, se all’instruere si affiancasse l’educere, se l’istruzione si facesse pedagogia?
Probabilmente impareremmo a non guardare solo alla punta dell’iceberg – che cambio di location, eh? – ma anche a quella parte sommersa, a non puntare sempre al traguardo ma a notare da dove partiamo, e che percorso facciamo. Del resto, il metodo socratico ci insegna che la risposta alla domanda non è il punto d’arrivo, ma la base di partenza per domandare ancora, mettere ancora in dubbio, scuotere altre convinzioni.
Allora concludo con una domanda aperta: e se la rivoluzione non fosse più un fatto eccezionale, ma un esercizio quotidiano?
Questa settimana vi proponiamo l’illustrazione di Clara, che mi ricorda un po’ la classica scena della polvere nascosta sotto al tappeto. Quante cose si accumulano sotto il tappeto dei discorsi quotidiani, quanta polvere si sedimenta nelle narrazioni consuete, quante cose potremmo scoprire se decidessimo di fare un po’ di pulizie?
Questa settimana apriamo la rubrica dei consigli con un esercizio: cinque domande banali da porsi ogni giorno, per lasciarsi stupire dalle risposte o dal percorso fatto per trovarle.
Perché devo lavorare per vivere?
Cosa, di ciò che compro al supermercato, mi serve davvero?
Quanto tempo ho impiegato per prepararmi ad uscire, e sarebbe stato diverso se fossi dovut* andare da un’altra parte?
Quante delle cose che ho fatto oggi volevo davvero fare, e quanto tempo ho dedicato a farle?
Quante delle cose che ho detto oggi erano sincere e perché le restanti non lo erano?
Aggiungo anche un suggerimento di ascolto: Certe Cose è un podcast de Il Post, dove Chiara Alessi racconta dei momenti che hanno segnato la storia attraverso oggetti banali, ordinari, ritrovati nei luoghi che hanno fatto - parzialmente o totalmente - da sfondo a questi eventi. Si trova su tutte le piattaforme podcast e sull’app del Post, dove è possibile ascoltarlo gratuitamente anche senza essere abbonati.
Se avete delle domande banali ma scomode da farci, potete scriverci all’indirizzo redazione@educationaround.org. Altrimenti ci trovate, come sempre, sui nostri canali: