Due settimane fa vi ho chiesto di salire a bordo e seguirci in questa nuova avventura. In questo e nei prossimi due numeri, vi chiedo di prendere attivamente parte a questo percorso. Preparatevi, vi spiego le regole.
Step numero 1. Assicuratevi di trovarvi in un posto tranquillo.
Step numero 2. Ascoltate attentamente (più volte, se serve) questa canzone:
Step numero 3. Cosa suscita in voi? Scrivetelo su un foglio, sulle note del telefono, o semplicemente tenetelo a mente.
Ecco, adesso che abbiamo fatto i primi tre steps insieme, iniziamo l’esperimento. L’ho fatto in primis su me stessa, e adesso vi porto a fare due passi lungo il mio sentiero di riflessioni. Se pazientate un momento e avrete ancora voglia di camminare, alla fine della passeggiata sarei felice di venire a percorrere il vostro, di sentiero. Ma vi dico tra un attimo.
Lei voleva la rivoluzione, l’aspettava e diceva di no: alle mie riflessioni ed ai vari argomenti, ai distinguo ed ai tanti però. Lei credeva in un puro ideale, nel riscatto di tutte le masse: al compromesso borghese e alla pace sociale opponeva la lotta di classe.
Ho già espresso la mia insofferenza per la parola compromesso, per quel passo indietro che implica una rinuncia a ciò in cui si crede. I distinguo, però, sono dovuti. E mettono in luce i limiti di un puro ideale inseguito alla cieca, di un desiderio di agire che si scontra con le barriere del reale. La voglia di giustizia e di equità fatica a farsi strada all’interno di un mondo che è cambiato, e noi con esso.
Come è cambiato? Come siamo cambiati?
La risposta ora è più complicata.
Complicare, dal latino cum e plicare, significa letteralmente piegare assieme. Trovare una risposta, dunque, richiede di avventurarsi tra le pieghe di un sistema che si sviluppa su più strati, spesso sovrapposti, intrecciati, annodati tra loro. Un sistema non uniforme, che spesso consente di muoversi solo attraverso passaggi nascosti e poco illuminati.
Dobbiamo quindi prestare attenzione ai modi subdoli in cui veniamo trascinati in questo labirinto.
Questo sistema – anzi, chiamiamolo con il suo nome: il capitalismo – non è più il vecchio scontro tra due poli: il capitalista e il proletario, il servo e il padrone. Perché si sa, far parte di uno schieramento genera compattezza, unità e visione comune rivolta verso il futuro. Oggi non è più così.
Oggi Contessa ha cambiato sistema, si muove fra i conti cifrati; ha lobby potenti ed amici importanti, e la sua arma più forte è comprarti.
Il potere, oggi, non passa più attraverso la produzione, ma attraverso il consumo - non dipende da quanto fai, ma da quanto hai. E il consumo, per definizione, non è collettivo. Ma, se l’antagonismo resta senza uno schieramento che combatta per migliorare le cose insieme - se resta il bisogno di prendersela con qualcuno ma non c’è più un fronte unito -, la lotta si sposta sul qui ed ora, sulla competizione per accaparrarsi dei beni che producono prestigio. Contro la collettività e il futuro, la società del consumo si dispiega nel presente, e gira attorno all’identità.
L’essere, dunque, passa attraverso l’avere. E produce due fenomeni.
Da un lato, la cristallizzazione delle strutture. Il sistema perde ogni sembianza personale. Non più l’impresario, ma la burocrazia. Non più questo o quel politico, ma la classe politica. Sempre più lontano, non più un volto ma un’entità impersonale. Del resto, cosa cambierebbe se al posto di Elon Musk o Jeff Bezos ci fosse qualcun altro? Sappiamo davvero qualcosa di loro che permetta di ammirarli o disprezzarli, o sono i loro soldi e il loro potere a renderli ciò che sono ai nostri occhi? Non c’è davvero qualcuno con cui prendersela, perché dentro questo sistema siamo tutti intercambiabili: oggi è Elon Musk, domani magari sarai tu, ma quel posto dentro il puzzle si guadagna comunque per ciò che si ha, e non per ciò che si è.
Quindi, dicevo, un sistema senza volto. Con chi te la prendi, se non hai un bersaglio?
Facile, con il tuo vicino di casa. E qui subentra il secondo fenomeno, la frammentazione degli individui. Crollata la logica secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico, l’antagonismo (rimasto intonso) si sposta verso dove si riesce ancora a trovare un volto. E diventa una lotta di tutti contro tutti: la mia autoaffermazione che ha bisogno del tuo affossamento, l’arrivismo di chi taglia prima il traguardo, la libertà da e non di.
Mi fermo un attimo su questo punto.
Esistono due accezioni di libertà, una negativa e una positiva. La prima è la libertà da interferenze esterne, e per definizione gira attorno all’individuo. L’Altro è un vincolo rispetto alla mia libertà, un ostacolo di cui disfarsi. La seconda è la libertà di fare qualcosa, di muoversi verso uno scopo. E se lo scopo è qualcosa di esterno a me, in questo caso l’Altro è la sfera di attuazione della mia libertà. Per questo motivo, la libertà positiva è storicamente associata alla partecipazione: non a caso, annovera tra le sue declinazioni la libertà di riunione e di associazione.
Neanche a dirlo, il capitalismo è l’impero della libertà negativa. Una libertà non malvagia in sé, ma manchevole se non affiancata dalla sua controparte positiva. Se ci riteniamo solo liberi da e non liberi di, il risultato è l’esacerbarsi dell’antagonismo di cui sopra. Se non raggiungi un traguardo pur essendo libero da vincoli, è tutta colpa tua; se arrivo prima di te in una strada senza ostacoli, è perché sono stato più bravo.
In una dimensione in cui ognuno guarda al proprio cortile, ciò che siamo passa attraverso ciò che abbiamo, e i rapporti tra persone sono mediati dai rapporti tra le cose. Il prestigio dipende dal tuo potere (che a volte, ma non sempre, è depositato in un conto in banca), non dalle tue idee. Il tuo valore passa da ciò che sei in grado di esporre in vetrina, da quanto sai renderti desiderabile.
Peggio ancora, queste dinamiche vengono spesso non solo normalizzate, ma romanticizzate. Pensiamo alle relazioni di coppia, in tre macrofasi.
Fase uno, la scelta del partner. Ci si affaccia su un mercato in cui vediamo noi stessi e gli altri come merci da scegliere in base a delle caratteristiche che indicano la desiderabilità nostra e altrui: il suo aspetto fisico è conforme agli standard? Dove è cresciuto/a? Dove ha studiato? Quanto guadagna? Non persone, ma aggregati di variabili che devono dare un risultato complessivamente soddisfacente per essere scelti.
Fase due, la relazione in sé. A questo punto bisogna tenere in piedi il rapporto, che altro non è che un investimento: si spendono tempo, denaro ed energie per portare avanti una relazione, perché questa generi un ritorno. Non solo: è presente, spesso, la paura di essere sostituiti nel caso in cui il mercato offrisse un prodotto migliore ad un prezzo più conveniente. Potrei scommettere che ognuno di voi abbia sentito esprimere, almeno una volta nella vita, il seguente timore: “e se trova una/o più bella/o di me e mi lascia?”. La reciprocità di un rapporto sano, qui, lascia il posto ad una logica di do ut des, in cui qualcosa ha valore solo se lo scambio è equo e produce un profitto.
Fase tre, la fine della relazione. Mi faccio aiutare da due modi di dire. “Chi ci tiene davvero resta e combatte per la relazione”: eccola qui, la logica dello spremere ogni risorsa fino all’ultima goccia, per vedere se si riesce a ricavarne ancora qualcosa. “In amore, vince chi fugge” – o, dico io, vince chi fa di se stesso una risorsa scarseggiante, dunque più desiderabile. Perché, secondo la classica legge della domanda e dell’offerta, minore la quantità di bene disponibile, maggiore il suo valore.
Non prendetemi alla lettera, so che le relazioni sono tanto altro e che le famose affinità elettive esistono. Ciò che ho iperbolicamente cercato di fare è, piuttosto, mettere in luce come anche parti quotidiane delle nostre vite siano regolate da certe dinamiche, anche quando meno ce ne accorgiamo.
E ho altri esempi, se servono: molti li trovate nei numeri precedenti, dalla narrativa dei traguardi alla necessità di performare per vincere la competizione. Se non bastassero, chiedetevi solo con quanta naturalezza cliccate “Sì, accetto” per togliere di mezzo quel fastidiosissimo avviso sui cookies, e cosa stiamo accettando quando lo facciamo, se non vendere i nostri dati. O, semplicemente, pensate a quanto spesso abbiate bisogno di superare qualcuno per ottenere ciò che volete.
Questa normalizzazione passa attraverso la passivizzazione di chi in quelle dinamiche è dentro fino al collo (spoiler: tutti), e così produce obbedienza. Un’obbedienza, tra l’altro, spesso involontaria: non decidiamo di vivere vite capitaliste, ma le nostre vite lo sono già così tanto che ogni nostra decisione avviene dentro un certo sistema. Obbediamo non per ideologia, ma perché non riusciamo a uscirne. Una logica del tipo: così è il mondo, che ci vuoi fare?
Allora hanno ragione, i Modena City Ramblers, quando dicono che “ora servono nuove parole”.
Trovare dei metodi per ribellarsi, oggi, significa spesso resistere dall’interno. “L’utopia è rimasta, la gente è cambiata”: uno stesso ideale deve trovare canali diversi per esprimersi, e quando l’oppressione si sposta da una specifica classe alla società intera, quando gli sfruttati spesso indossano giacca e cravatta, quando per uno stipendio decente sacrifichi ogni altro aspetto della tua vita, forse servono davvero delle nuove parole.
Servono, soprattutto, perché stare fermi ad aspettare il grande Cambiamento è come aspettare Godot; serve, piuttosto, procedere quotidianamente per cambiamenti.
“Pensare globale, agire locale” non è uno slogan ma una sfida vitale!
Il punto di forza di un’oppressione tanto diffusa e invisibile, e dell’allargamento della categoria degli oppressi a una fetta più estesa e variegata di popolazione, è il poter contare sulla diffusione di conoscenze. Mi spiego meglio: da un lato, l’inflazione dei titoli di studio e la conseguente corsa per accaparrarseli produce, se non altro, una maggiore base di alfabetizzazione; dall’altro, la globalizzazione permette a chiunque di accedere a qualsiasi informazione. Risultato: tutti sappiamo mediamente qualcosa in più rispetto alle generazioni precedenti. Se rivolto verso un obiettivo nobile, questo bombardamento di informazioni può generare un risveglio delle coscienze volto verso un “pensare globale”. Se ci si rende conto che siamo tutti vittime, potremo almeno riuscire a distanziarci da noi stessi quando rischiamo, inavvertitamente, di comportarci come carnefici.
L’unico modo per farlo, dunque, è “agire locale”. Ciò che possiamo fare è muoverci nel nostro – piccolo – raggio d’azione, e al suo interno respingere la logica del potere su (e della sola libertà da), a favore di un potere con (e libertà di). Promuovere giustizia, uguaglianza, equità. Questo significa abbracciare delle forme di cooperazione e solidarietà esterne alle logiche di scambio, non sistemiche ma volontarie. Fare rete, dunque, e riscoprire il senso originale delle relazioni personali tramite un protagonismo diretto che ci ricordi che non siamo prodotti da comprare, ma mani da stringere.
E lo so che sembra un compromesso, che sembriamo allontanarci dalla lotta propriamente intesa: ma lottare significa anche agire con intelligenza, avventurarsi dentro le pieghe di un sistema sempre più subdolo, e modificare la propria strategia per adattarla ad un mondo che cambia. Se resistenza oggi significa resistere dall’interno, se significa negoziare per non abbandonarci ad un ruolo di merci negoziabili, allora facciamolo, purché abbiamo ben chiari i confini della nostra negoziazione. Proprio in questi confini sta l’ideale, l’utopia che ancora vive, il non rinnegare la vecchia strada; il modo di percorrerla, però, deve cambiare.
E non sentitevi ipocriti, a lottare contro dei privilegi che con tutta probabilità avete: è proprio quello il senso della solidarietà, e proprio quel privilegio vi fornisce la voce per protestare, per voi e per chi non ce l’ha. Sta proprio qui, la furbizia di chi resiste dall’interno: creare un fronte compatto dentro un mondo di frammentazioni. Utilizzare gli strumenti che ci sono dati per gridare forte, fortissimo, che c’è qualcosa che non va, in primis con quegli stessi strumenti. Dire che non va bene che solo in pochi possano parlare, che non è giusto che chi sono passi in secondo piano rispetto a ciò che possiedo, che voglio che mi si guardi in faccia e mi si ascolti, che mi si giudichi per quello che valgo e non per i soldi che ho in tasca o perché annovero questo o quel grande nome a garantire per me.
Del resto, se tutto è un prodotto del sistema, tanto vale produrre solidarietà, no?
Come vi ho detto, mi piacerebbe esplorare i percorsi che questo ascolto ha generato in voi. Per questo motivo, ho chiesto ad Elisa semplicemente di ascoltarla, e rappresentarla a suo piacimento. Da qui questa splendida illustrazione, a cui non mi sento di aggiungere alcuna descrizione; del resto, è la sua parte dell’esperimento.
La sezione risorse questa settimana è un po’ diversa:
Apro una parentesi, che riguarda il riferimento a Contessa. Per chi non la conoscesse, si tratta di una famosa canzone popolare di Paolo Pietrangeli che ha accompagnato il ’68 italiano e le sue proteste. Contessa porta avanti un ideale di lotta e rivoluzione tradizionalmente intese, dunque violente. Nel ritornello, Pietrangeli canta: “Voi gente per bene che pace cercate? La pace per far quello che voi volete. Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra". Erano metodi adeguati al loro tempo e al contesto in cui nascevano, e l’ideale di fondo (“nessuno più al mondo deve essere sfruttato”) resta vivo e ardente. Ma, non sto neanche a dirvelo, oggi più che mai c’è un disperato bisogno di pace. E forse la vera rivoluzione sta nella solidarietà.
Per questo motivo, i Modena City Ramblers (che avevano prodotto una cover di Contessa) hanno deciso di non cantarla più, notando che da essa scaturivano comportamenti violenti tra il pubblico. Qui spiegano la loro scelta di rimuoverla dalla scaletta, e di sostituirla con le nuove parole di Mia dolce rivoluzionaria.
Mi piacerebbe molto conoscere le riflessioni che questa canzone ha scaturito in voi; sarebbe come averla ascoltata insieme. Per questo motivo, nelle nostre storie su Instagram troverete sondaggi e box domande per chiacchierare un po’. Se avete feedback più articolati, mandate una mail all’indirizzo sofia.lomascolo@educationaround.org, oppure scriveteci in chat sui nostri social: