Siamo già a metà del mese dei buoni propositi. Quella metà in cui o si va a tutta velocità o ci si ferma a riprendere fiato, in piena ripartenza o in pausa di riflessione. In cui se ci sono ferite ancora aperte riprendono a sanguinare, e se la strada è dissestata comincia a cedere.
Ma ammettiamo che la cicatrice sia chiusa, la strada in sicurezza. Perché c’è sempre qualcuno che va più veloce di noi?
Sveliamolo, questo segreto di Pulcinella: non tutti iniziano a correre dalla stessa linea di partenza. E dico correre, perché lo facciamo tutti. Se il successo è proporzionale alle lodi sul libretto, ai nomi prestigiosi sul curriculum, ai record di velocità di carriera, ciò a cui assistiamo è una vera e propria corsa ai titoli. Volenti o nolenti, siamo tutti in gara.
Allora corriamo, su quella strada che con fatica e sacrificio abbiamo rimesso in sesto, spinti dalle ferite già sanate e spronati dai propositi non ancora raggiunti. Andiamo veloci, ma non troppo; procediamo spediti, ma ci fermiamo a riprendere fiato. Come abbiamo imparato.
Ma ad ogni sosta vediamo la linea del traguardo allontanarsi, un titolo alla volta. L’asticella si fa sempre più alta, la vediamo appena finché quasi non scompare dalla nostra vista. Allora riprendiamo a correre, a inseguire quel traguardo.
La ferita ha ricominciato a sanguinare. Non importa, non posso fermarmi adesso.
La strada, sempre più lunga, comincia a cedere sotto le gambe. Devo resistere.
Perché tutti continuano a superarmi? Perché a nessuno sembra mancare il fiato? Perché tutti hanno successo, e io continuo a fallire?
Facciamo un passo indietro. L’unità di misura del successo è implicita nella parola stessa: successus, da succedere, vuol dire letteralmente “buon esito”. Il successo si misura in esiti, dunque in traguardi. Quanto è alta la mia pila di titoli di studio? Quanto è altisonante il nome dell’istituzione che me li ha conferiti? Come in ogni collezione che si rispetti, la narrativa dei traguardi funziona secondo la ben nota logica del ce l’ho/mi manca. Ogni riga sul curriculum è una casella da spuntare, una nuova moneta da spendere nel mercato dei traguardi.
Volere è potere!
Se non ci sei riuscito, non ti sei impegnato abbastanza.
Se hai un obiettivo, nulla può fermarti.
Il tuo successo dipende solo da te!
Tutte queste affermazioni, tristemente familiari alla maggior parte di noi, si possono tradurre in un’unica frase. Se il traguardo esiste, chiunque può raggiungerlo. Che è un altro modo per dire che solo i migliori ce la fanno.
Ma siamo sicuri?
La narrativa del traguardo spesso oscura la partenza, che può avvenire da distanze molto diverse. La retorica dei “migliori” camuffa da merito ciò che è in realtà il frutto di un privilegio. E dimentica che chi colleziona titoli ha la possibilità di pagare per ottenerli – che non vuol dire comprarli, ma pagare la retta dell’università. Soprattutto quella di università prestigiose, dei grandi nomi sul curriculum, che risultano inaccessibili alla maggioranza degli studenti. Dimenticano anche che chi va lontano per ‘spiccare il volo’ non ha catene che lo costringano a casa: a prendersi cura di un parente, ad aiutare una piccola attività familiare, ad ammortizzare le spese di un affitto che già da solo pesa sulle spalle. O ancora, che qualcuno semplicemente non ce la fa, perché paralizzato da una malattia di cui la sanità pubblica non si fa carico.
Qui apro una parentesi, perché una ferita che accomuna tutti c’è. La conosciamo bene, entra in ogni casa e in ogni discorso, ha preso il posto dei convenevoli e riempie i silenzi di ogni conversazione. È una ferita che non conosce privilegio e ammortizza ogni traguardo, che interrompe la strada e rallenta il passo. Lo fa con tutti. Nell’indifferenza generale verso un problema ancor più generale, qualcuno ha provato a intervenire. Un gesto nobile, ma non è abbastanza. Perché interventi mirati e circoscritti seguono ancora una narrativa di arrivi e traguardi, che poi è una narrativa di delimitazione - e quindi diminuzione - del problema. Si guarda solo il punto d’arrivo, la parola fine, la chiusura del caso. La soluzione ad un problema che non tiene conto del percorso lungo e intricato che collega i due estremi del segmento - che poi non è mai un segmento, perché non è mai lineare. Perché un bonus è qualcosa in più, che suggerisce la non-essenzialità di ciò che fornisce. Il malessere psicologico che con la pandemia non ha lasciato superstiti non è una di queste cose. Non ha una data di scadenza, non si ferma al suono di un cronometro. Un problema sistemico di questo calibro non si risolve tappando i buchi con dei voucher che ne intrappolano il valore. Se manca l’aria non basta aprire una finestra.
Torniamo a noi.
Scambiare il privilegio per merito produce una stigmatizzazione di chi il traguardo lo vede appena, perché la sua linea di partenza è troppo lontana. Non solo; ignora che, a parità di condizioni iniziali, il percorso non è mai prevedibile, e presenta ostacoli invisibili dalla linea di partenza. Così, la retorica del traguardo dimentica anche chi resta indietro a curare ferite per cui non ha responsabilità, a rimettere in sesto una strada che è crollata sotto ai suoi piedi, a riprendere fiato quando l’asticella si alza così tanto da far mancare l’aria. E non fa nulla per aiutare a rimettersi in carreggiata, ma anzi premia chi non è mai caduto.
E se chi percorre una strada senza ostacoli è lo standard del successo, il traguardo si fa ancora più lontano per chi di ostacoli ne incontra parecchi. Così, si rinforza la bolla di privilegio e che non colma – ma anzi, accresce – la distanza tra chi parte da lontano e quel traguardo irraggiungibile. E gli unici ad arrivare sono i pochi che non hanno mai avuto bisogno di correre.
Sì, volere è potere. Nel senso che chi il potere lo detiene può permettersi di volere. Può correre rischi, perché possiede abbastanza da poter perdere qualcosa senza perdere tutto. Può commettere errori, perché quegli errori non influenzeranno tutta la sua vita. Dunque, volere è esercizio di potere, perché volere non costa tutto solo per chi già può.
Perché un sistema che mortifica la maggioranza resta in piedi?
Perché la società è politica, e al giorno d’oggi (con qualche rara eccezione) la politica è privilegio. E se il privilegio stabilisce le regole del gioco, i privilegiati saranno sempre i vincitori. E se la storia è scritta dai vincitori, in ogni voce del dizionario privilegio si scriverà meritocrazia. Chi prospera non si spoglierà della virtù del ce l’ha fatta da solo. Chi parte da vicino non ammetterà mai quanta strada (non) ha fatto per tagliare la linea dell’arrivo. Perché se il merito è la premessa del successo, e il successo si misura in traguardi, smascherare un merito fittizio significa vanificare ogni traguardo, sconfessare ogni successo. E se il mercato seleziona i migliori – nonostante siano proprio i ‘migliori’ a guidarlo –, allora va bene così: chi siamo noi per dire di no alla mano invisibile? Se poi siamo noi i burattinai che muovono quella mano, tanto meglio. Chi merita viene ricompensato, e chi non merita non ci ha provato abbastanza. La mano invisibile non può fallire, e se non ha visto valore in loro, allora quel valore non c’è.
La meritocrazia, quindi, è un bel principio applicato male, che tentando di neutralizzare il privilegio rinforza la disuguaglianza. Che nella speranza di smascherare chi imbroglia favorisce chi ha già un vantaggio. L’uguaglianza, infatti, non può essere un traguardo, ma deve essere un percorso. Bisogna pensarla come una strada in cui non basta un asfalto perfetto se mancano dei compagni di viaggio. Un’uguaglianza, quindi, che nasce da condizioni materiali, ma si nutre di relazioni sociali che decostruiscono la dicotomia successo/fallimento ed edificano una nuova narrativa di solidarietà.
Questo significa che chi ha un privilegio deve usare la propria voce per denunciarlo; chi raggiunge un traguardo deve ribadire che il merito sta nel percorso; chi vive riparato all'ombra del proprio successo deve condividerla con chi, lungo la strada, si ferma a riprendere fiato. Soprattutto, i “migliori” devono spogliarsi di una retorica che etichetta il successo e il fallimento, loda chi ha potuto farcela e umilia chi non ne aveva gli strumenti. Devono essere la voce di chi non ha abbastanza fiato per parlare, costruire una politica che non si accontenta. E, una volta per tutte, cancellare potere dai sinonimi di volere.
La scuola, dal canto suo, deve essere il motore di questo cambiamento, e non un mercato dove guadagnare una moneta che rinforza le dinamiche di potere. Deve ricordare ai suoi alunni che l’educazione non è una merce, che il loro impegno non si traduce nel valore di uno stipendio, che a ogni domanda non c’è mai una sola risposta. Deve insegnare loro che il successo non è un obiettivo, che l’arrivo conta meno del percorso e che ogni percorso è valido, che uscire dagli schemi non è un fallimento. Che se gli altri ti superano, potrebbero essere appena partiti. E che un traguardo che si allontana vale meno di una ferita da sanare. Soprattutto, che educhi gli studenti a non vedere le proprie vite come prodotti da mettere in vendita, ma come strade da costruire e su cui camminare.
L’illustratrice che vi presentiamo in questo numero è Paola, i cui disegni mi hanno incantata. Questo, però, mi ha colpita particolarmente: una bambina pronta a partire, ma frenata da un’ancora troppo pesante perché possa rimuoverla da sola. Bloccata alla partenza da un macigno su cui non ha controllo. L’augurio, allora, è che sia la scuola a togliere quest’ancora, per formare una generazione che, leggera, riesca a spiccare il volo.
In questo numero, vi proponiamo alcune risorse interessanti:
UCL, proprio uno di quei grandi nomi da sfoggiare sul curriculum, ha una sezione nella sua sede centrale dedicata ad una mostra che racconta tredici storie di fallimento. Si chiama FLOP, e ha anche un suo podcast.
Anche Lisa Kudrow, meglio conosciuta come Phoebe in Friends, ha collezionato una serie di “fallimenti” che l’hanno portata a diventare uno dei volti più conosciuti della televisione - e non solo.
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