È nell’acqua corrente, negli stabilimenti dove passiamo le estati, persino nella spazzatura che portiamo giù la sera. S’insinua tra i sassolini dell’asfalto delle strade, tra i mattoni degli edifici che abitiamo, nel denaro con cui paghiamo.
Sempre più camaleontica, nascosta in piena vista, sfugge all’occhio disattento. Eppure è lì, permea le nostre vite e si nasconde nel silenzio.
Quando pensiamo alla mafia, ci vengono in mente sparatorie ed esplosioni. Cose che fanno rumore.
Un rumore fortissimo, poi, fu quello che si sentì proprio quel sabato pomeriggio di trent’anni fa, quando sull’autostrada A29 la mafia fece letteralmente il botto. Che sia tramite ricordi o racconti, la strage di Capaci la conosciamo tutti. Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
Falcone è stato uno degli uomini che hanno combattuto la mafia che faceva rumore. L’hanno combattuta con la legge e con la giustizia, con le parole, con altrettanto rumore – così tanto da non uscirne vivi.
Io sono nata e cresciuta in Sicilia, terra di quella mafia che fa rumore. Sin da piccolissima, a scuola, sono stata destinataria di campagne di sensibilizzazione, ho ascoltato persone su persone che venivano a raccontarci cosa fosse la mafia e quanto fosse importante combatterla. Ma, soprattutto, ci insegnavano cosa significasse essere mafiosi.
La cosa che di quegli innumerevoli incontri mi è rimasta più impressa è il fatto che nessuno parlasse di spari e di esplosioni; tutti, al contrario, parlavano di silenzio. Cioè del campo semantico esattamente opposto.
Del resto, ad ogni forza ne corrisponde un’altra uguale e contraria: quanto più forte il rumore, tanto più denso e cupo il silenzio che cerca di coprire.
Pensate alla classica situazione da film, in cui il colpevole parla più di tutti gli altri personaggi. Oppure, alla circostanza ordinaria un silenzio scomodo che appesantisce l’aria nella stanza. Cosa si fa per romperlo? Si dice qualcosa, qualsiasi cosa. Si spezza con il rumore. Non è importante cosa si dica: il protagonista è il silenzio, e quelle parole sono una copertura qualsiasi per farlo uscire di scena.
Il punto è che il rumore è solo la superficie visibile di un fenomeno endemico, sottocutaneo.
Ora torniamo ai miei anni di scuola. Nessuno, dicevo, ci parlava della superficie; tutti scavavano più a fondo, toccavano proprio quei nervi sottopelle del tessuto sociale a cui apparteniamo. Che fosse la maestra o qualche ospite esterno, LIBERA o Rita Borsellino in persona, tutti ripetevano sempre la stessa parola: omertà, omertà, omertà.
E qua entra il gioco la differenza tra il far parte di un’organizzazione mafiosa e l’essere mafiosi. Tra l’appartenenza e l’atteggiamento. Tutti, dicevano, possiamo essere mafiosi: lo siamo quando decidiamo di tacere davanti a un’ingiustizia, di non far sentire la nostra voce per paura, di smettere di ricordare e di raccontare. Siamo tutti mafiosi quando per comodità o per paura abbassiamo la testa davanti a chi ha più potere di noi. Possiamo esserlo tutti, dal bambino che vede un bullo rubare la merenda al compagno e non dice niente, a chi assiste a un sopruso per strada e si volta dall’altro lato.
Se il veleno è l’omertà, dunque, l’antidoto è la voce.
Qualcuno quella voce l’ha usata per urlare che la mafia è una montagna di merda. Ricordiamoci, aggiungo io, che ogni montagna è fatta di roccia, e la roccia spesso si sfalda. Sfaldandosi, poi, perde pezzi. Che poi diventano massi, poi pietre, poi sassolini. E i sassolini finiscono tra i piedi e fanno inciampare.
Se la montagna, imponente, è il rumore degli spari, il tempo ha portato con sé un’erosione che quella montagna l’ha prima sfaldata, poi levigata. Prima dispersa, poi raffinata. Ne ha disseminato i residui e affinato le tecniche per nasconderli.
La montagna è coperta da una coltre di nebbia. Non si vedono più le sparatorie per strada – no, neanche in Sicilia. Ciò non significa che non ci sia o non lasci tracce: un sassolino alla volta entra nelle nostre vite.
Sassolino uno, gli appalti. Sassolino due – un po’ più piccolo, meno visibile – le raccomandazioni sui posti di lavoro. Sassolino tre, la gestione di beni pubblici (sapete che in alcune città d’Italia l’acqua corrente è gestita da privati?). Sassolino quattro, quello stabilimento di fronte a casa mia che con la nuova gestione andava tanto bene e ha misteriosamente preso fuoco durante la notte. Sassolino cinque, certi ambienti in cui tal dei tali conosce tutti e non gli sfugge nessuna tua azione (e non parlo di piccoli paesini, ma di grandi aziende). E così via, fino al sassolino cento, mille, centomila. Fino alla ramificazione più subdola e invisibile, meglio mimetizzata e dunque percepita come meno pericolosa.
Ma, ricordate, più profondo il silenzio, maggiore il pericolo.
Falcone diceva che la mafia è un fatto umano, e come ogni fatto umano ha avuto un inizio e avrà una fine. Però aggiungo, mio caro Falcone, che ogni fatto umano cambia molteplici e mutevoli forme prima di spegnersi. Proprio per questo bisogna non abbassare la guardia, osservare il cambiamento, essere pronti a squarciare quel silenzio in ogni sua nuova configurazione.
Bisogna, credo, ritrovare una certa attenzione alle piccole cose, che poi piccole non sono mai. Soprattutto perché sono spesso sintomo di qualcosa di molto più grande, di cui fanno parte ma da cui possono distaccarsi, fino quasi a far scomparire l’apparenza di un legame, per agire in autonomia e con maggior discrezione. Per mimetizzarsi, insomma, e portare a casa il bottino senza lasciare tracce. Bisogna prestare attenzione alle piccole cose, perché piccolo è il seme che porta nuova vita, ma è proprio quella freschezza che consente di vivere ancora più a lungo e ancora più forte.
Per questo, amiche e amici, voglio concludere con una raccomandazione. Alzate lo sguardo verso la montagna, abbiate in mente quanto è alta; attenti, però, a dove mettete i piedi.
Questa settimana vi proponiamo un’illustrazione di Wanda, dal titolo Dum Spiro Spero (“finché respiro, spero”). Mi racconta che è un messaggio in primis di speranza, perché il passato faccia da monito per il futuro e le tragedie lascino il posto a “una strada scevra dal marciume”. La barca mi ricorda la nave della legalità, che da anni è simbolo di questa ricorrenza e di un ricordo del passato che ci orienti nel futuro. E che ci ricorda di prestare attenzione alle nuove forme in cui il passato si affaccia al presente e minaccia il futuro: la speranza deve accompagnarsi a un occhio vigile, perché su quella strada rischiamo di inciampare ancora.
Dopo una pausa di tre numeri, in cui abbiamo lasciato spazio ai nostri esperimenti musicali, ritornano i consigli della settimana:
L’Archivio Antimafia raccoglie foto, video, lettere e altro materiale per chiunque volesse avvicinarsi a quel pezzo di storia.
Il politico ed ex magistrato Pietro Grasso, che quelle storie le ha vissute da vicino, tiene su Instagram la rubrica Stories di Mafia, dove ripercorre in prima persona gli episodi più salienti di quegli anni in cui la mafia faceva rumore.
Di Falcone e Borsellino parla un bell’episodio del podcast Qui si fa l’Italia, dove Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Baravalle raccontano gli eventi che hanno segnato l’Italia per come la conosciamo adesso - sebbene, come molti di noi, non li abbiano vissuti in prima persona.
Scontato ma mai banale: i cento passi che separavano la casa di Peppino Impastato da quella dello zio e boss mafioso Tano Badalamenti separavano mondi ideologicamente distanti anni luce, ma restituivano un senso di familiarità preoccupante tra quegli stessi mondi. Peppino ci ha insegnato che possiamo tutti ritrovarci così vicini, così familiari a quella montagna, e ci ricorda di contare bene quei passi, di riempire ciascuno di essi di significato. Se non conoscete la sua storia, la potete trovare narrata in molteplici forme: in primis, in un celebre film (di cui ho linkato una scena sopra) e in una ancor più celebre canzone.
La lotta di Peppino continua tramite il fratello Giovanni e la sua Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato.
A narrare la mafia di quegli anni è stata anche la fotografa Letizia Battaglia, che ci ha lasciati proprio un mese fa. La potenza della sua fotografia ritrae la spontaneità di una Sicilia che non poteva nascondersi, e si mostrava in tutta la sua cruda, ingenua, splendida naturalezza.
Ho dovuto fare una selezione, ma le risorse sono tante e i consigli sempre ben accetti. Se conoscete altre risorse e volete suggerircele, scriveteci una mail all’indirizzo redazione@educationaround.org oppure contattateci attraverso i nostri canali social: