Io vedo.
Da ὁράω (orao; vedo), che poi diventa εἶδον (eidon; ho visto), all’infinito ἰδεῖν (idein; vedere). Salta all’occhio - anzi, all’orecchio - l’assonanza tra l’idein e l’idea, il vedere e il pensare. Tra il sensibile e l’intellegibile. Tra il corpo e l’anima. Un’opposizione secolare e quasi antagonistica, l’eterna lotta tra fisico e metafisico, tra finito e infinito, tra accessorio e sostanziale, ricongiunta da un’azione: vedere.
Facciamo un passo indietro, perché sento già l’obiezione della me lettrice davanti a questa introduzione.
È un dualismo superato!
Chi sei, Platone? (su questo, ci risentiamo tra un attimo)
Viviamo in una società fluida, certe distinzioni hanno fatto il loro tempo!
Sicuri?
Lo scorso aprile, durante un’interrogazione in DAD, una studentessa quindicenne di Verona è stata obbligata dalla sua professoressa di tedesco a bendarsi gli occhi per dimostrare di non star barando. A maggio, degli studenti di filosofia dell’Università Alma Mater di Bologna sono stati costretti a coprirsi gli occhi durante un esame online, come prova della propria onestà. Oscurare l’idein per custodire l’idea. Non due casi isolati, ma due istanze particolari di un problema sistemico. Di una istruzione che non è pedagogia.
Pedagogia deriva da παῖς (pâis: bambino) e ἄγω (ago: accompagnare). Prendere per mano e accompagnare l’allievo in un processo educativo, da e-ducere, portar fuori. Accompagnarlo nel suo dischiudersi per lasciarlo fiorire.
Diverso è istruire, da in-struere, accumulare dentro. Inserire nozioni e farle sedimentare finché non diventano proprie. Un passaggio importante da non sottovalutare, ma da non assolutizzare.
Mi spiego. Se inspirassimo senza espirare, non staremmo respirando, ma implodendo. Allo stesso modo, in-struere senza e-ducere non è pedagogia, ma una stratificazione che finirà per crollare su se stessa. Se la valutazione – soprattutto se punitiva – scavalca la formazione, se le nozioni oscurano la fioritura, la pedagogia smette di respirare.
Ho già parlato altrove di intelligenza emotiva, proponendo un modello integrato di scuola che offra competenze trasversali, che guardi al sentire oltre che al sapere. Che espiri dopo aver inspirato. Ma forse non basta cambiare la modalità di offerta, se la selezione a monte resta invariata. Non ripeterò la lunga lista di suggerimenti non richiesti proposta da un articolo di MicroMega, che comunque consiglio di leggere. Ma ribadisco che se l’intelligenza emotiva non viene coltivata durante la formazione dell’insegnante, prima ancora che dell’alunno, sentiremo parlare di bende e occhi coperti ancora per molto.
Punto e a capo.
Lo vedete il dualismo? Se la risposta è ancora no, vi propongo un elenco di frasi che sicuramente riconoscerete:
Non dovete parlare. State seduti composti. Non potete andare in bagno senza chiedere il permesso. Alzatevi solo quando entra ed esce l’insegnante.
E così via. È la nobilitazione dell’esercizio intellettuale che, portata agli estremi, ci abitua a relazionarci con il - nostro - corpo in maniera repressiva, a vederlo come elemento sacrificabile perché secondario, accessorio, accidentale. Il verbo latino accido significa letteralmente piombare addosso. Come ci fosse caduto addosso un fardello ineludibile, ci sentiamo quasi condannati a portarci dietro quest’onere che proprio non volevamo.
E la scuola sembra volerlo ancor meno.
Questo rifiuto ha un nome: didattica per conoscenze. Ed è la stessa che porta la scuola italiana - ma non solo - ad arroccarsi su un sistema educativo che impone gerarchie sul processo d’apprendimento. Perché se il corpo è accidente, le discipline fondate su di esso sono accidentali. Se il corpo è marginalizzato, lo saranno anche tutte le sue forme d’espressione. Chi eccelle nella danza o nel teatro ma non nell’immagazzinare nozioni non è uno studente (conforme al) modello, che educa soltanto “dalla vita in su, soprattutto la testa, leggermente da un lato”.
Bello che ti piaccia la danza, ma è solo un passatempo, giusto?
La musica è una disciplina nobilissima, ma non troverai mai lavoro.
Reciti molto bene, ma a parte questo cosa studi?
Studia qualcosa di utile invece di dipingere. È una perdita di tempo!
Una perdita ditempo, che andrebbe invece speso o investito. Se l’esercizio intellettuale è valutato come maggiormente spendibile, come un investimento dal ritorno maggiore rispetto alle discipline fondate sulla corporeità, questo genererà un privilegio. Complementare al privilegio è la stigmatizzazione di chi non colora dentro le linee, ma crea un’opera d’arte fuori. Se è fuori, però, non ha valore e non merita ricompensa.
Valore, privilegio e ricompensa sono gli ingranaggi di una macchina di incentivi che muove il mercato del lavoro – e, in previsione, dei titoli di studio. Se vogliamo muoverci, abbiamo bisogno di un motore; se vogliamo arrivare, abbiamo bisogno di un punto d’arrivo; se vogliamo eccellere, abbiamo bisogno di essere premiati.
Se l’unico incentivo possibile è quello di formarsi “dalla vita in su, soprattutto la testa, leggermente da un lato”, il risultato finale sarà una standardizzazione del percorso di formazione post-scolastico, con una conseguente inflazione dei titoli di studio.
Ritorniamo al privilegio. Trent’anni fa, avere una laurea era un privilegio. Adesso è il minimo, un pezzo di carta. E quindi potenziamo quel pezzo di carta e passiamo al titolo di studio successivo. Ma se il sistema di incentivi è omogeneo e applicabile indiscriminatamente, nessuno si fermerà alla prima tappa. E allora si alza l’asticella: pronti, partenza, via. Inizia la corsa al titolo successivo. E a quello successivo, e a quello ancora successivo. Normalizzare la gara a chi ha la pila più alta di pezzi di carta produce una iper-specializzazione che inghiotte il valore, minimizza la ricompensa, allontana il privilegio. E guai a chi non lo insegue.
Così, insieme al corpo, cade anche l’intelletto.
Non perché sia stato sacrificato, ma perché ha inspirato troppo senza espirare mai. Perché l’in-struere ha divorato l’e-ducere, fino a farsi mancare l’aria.
Mors tua, vita mea? Niente affatto. Sacrificare il corpo, a ben guardare, è la premessa di un’ineluttabile caduta della mente insieme ad esso. Da destinataria del sacrificio a vittima sacrificale. Sacrificata a se stessa, tra l’altro.
E allora torniamo all’idein e all’idea, al vedere che è anche pensare, al corpo che è anche anima.
Il primo presunto teorico del dualismo, Platone, dualista non lo era affatto: “non esercitare né l’anima senza il corpo, né il corpo senza l’anima”, scriveva nel Timeo. L’inizio dell’educazione dell’anima lo individuava nella musica e nella ginnastica: dall’esercizio del corpo alle Forme pure. Dal sensibile all’intellegibile, senza interruzioni. Dall’idein all’idea.
Non liberarci del corpo, ma fare corpo per liberarci.
E allora, una volta per tutte, smettere di additare il corpo come ospite non gradito. E in questo modo valorizzarne le forme di espressione, abbattere la gerarchia, diversificare la richiesta nel mercato del lavoro. Non compartimentalizzare, perché dualisti non possiamo proprio esserlo. Perché il corpo non ci è piombato addosso, e senza esso non sopravvive neanche la mente. Perché se asfissiamo uno, prima o poi soffoca anche l’altra.
Alla fine, è questione di vederci lungo.
Quando ho raccontato a Simone Tartaglia di questa newsletter, lui è stato così gentile da disegnarcela. Quindi, questa settimana vi proponiamo proprio la sua illustrazione:
“In un mondo dove diluviano parole molto nozionistiche, istruenti ma poco educanti, gli studenti reagiscono con esperienze che hanno fatto proprie.”
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