Siamo arrivati al nostro secondo appuntamento musicale. L’ultima volta abbiamo parlato di vecchi ideali e nuove parole, di un’esigenza di cambiamento generata da un mondo che si fa sempre più complicato, e ci assorbe tra le sue pieghe.
Oggi replichiamo l’esperimento. Le regole le conoscete già, quindi ecco la canzone.
Non è un brano che mi piace particolarmente, ma ha sicuramente un bel testo su cui possiamo fare due chiacchiere. Pronti? Andiamo.
Il fiume è una figura che rimanda al flusso, che deriva da fluere e dunque significa scorrere. Il flusso, il fiume, è qualcosa che scorre.
Banale, direte.
Vero. Ci riprovo.
Scorrere viene da ex-currere, letteralmente “correre via” o “correre fuori”. Rimanda, dunque, ad un allontanamento. Questo, poi, è spesso la conseguenza di un rifiuto: mi allontano da ciò che non voglio conoscere, vedere, vivere.
Stare al centro del fiume, quindi, significa rifiutarsi di vedere e lasciarsi trasportare dal suo flusso. Vuol dire, quindi, abbracciare una certa passività e scegliere di subire; abbandonare i propositi e, inermi, lasciarsi spingere.
E questa è una polvere grigia che cade sugli occhi dei figli dell’uomo.
La polvere grigia, questa patina intorbidente e intorbidita che si posa sullo sguardo dei giovani, è proprio quella polverina magica che produce alienazione. È il velo della delusione e della disillusione per un cambiamento che non è avvenuto, per una ribellione che non ha funzionato.
E dormi nel centro del fiume che corre alla meta
E niente che possa turbare il tuo sonno di seta
Qualcuno ti grida di aprire i tuoi occhi nebbiosi
Ma tu preferisci annegare in giorni noiosi.
In quel sonno di seta ci si può cullare. È facile, del resto: la rivoluzione ha fallito, ogni ideale è svuotato, e tutto ciò che possiamo fare è lasciarci agire da un mondo che non abbiamo creato noi, farci trasportare dai “fragili miti creati dal mondo di ieri”.
Sono i miti materiali del miracolo economico: la laurea e poi il posto fisso, la casa di proprietà, il matrimonio e poi i figli. La guerra era finita, l’economia cresceva, il mondo era tutto loro. I figli del boom economico – i boomers – sono nati protagonisti e non accennano a cedere il posto. Insieme a loro, i valori di un mondo che hanno costruito e abitato, ma che fatica a restare in piedi.
Figure di carta che bevono nuovi pensieri
E fragili miti creati dal mondo di ieri
Disperdono giovani forze sottratte al domani
Lasciando distorte le menti e vuote le mani.
I genitori della narrativa dei traguardi, che in alcuni casi sono anche i nostri genitori, ci hanno consegnato un mondo che non è più a misura nostra. Un mondo dove loro stanno ancora bene, e per questo motivo non ne comprendono l’obsolescenza.
No, la laurea non è più posto fisso perché è anch’essa inflazionata, il lavoro a volte te lo devi inventare – cercate su Google “inventarsi lavoro in tempo di crisi”, poi fatemi sapere –, una relazione duratura non porta a nozze certe, e matrimonio non è sinonimo di figli. Così, per dirne un paio.
E allora qual è il problema?
Il problema, cari miei boomers, è che quegli standard vengono forzati su una generazione che non ha più nulla da dirvi. Attenzione: non ho detto che non ha più nulla da dire, ma nulla da dirvi. Nel senso che una voce ce l’ha, ma non siete disposti ad ascoltarla. Forse perché comunica diversamente, perché i suoi canali sono cambiati. O forse perché non riconoscete le nuove parole che hanno plasmato, né siete disposti ad impararle.
Dunque, domande che non hanno più risposte, e risposte che non rispondono ad alcuna domanda.
Quindi cosa si fa?
Si aspetta. Siamo una generazione in attesa, quelli che aspettano. Pensate a dove siete adesso: è dove vorreste essere tra dieci anni? Oppure state scendendo a compromessi mentre aspettate che le cose vadano meglio?
Una frase così vaga, poi, le cose vadano meglio. Cosa vuol dire? Quali cose, meglio come? Ci chiediamo mai cosa vogliamo dal futuro, o abbiamo paura anche solo a proiettarci da quelle parti? Riusciamo a scorgere qualcosa tra quella nebulosa oscura, o parliamo del futuro come un’entità di cui non sappiamo neppure delineare i contorni?
Il punto, amiche e amici, è che il futuro è un punto interrogativo così grande che fa troppa paura per scrutarlo. È già tanto se riusciamo a guardare in faccia il presente: tra guerre, pandemie e crisi climatiche a danneggiare le nuove generazioni, e l’incertezza crescente che ne deriva, non possiamo che essere travolti da un senso di sconfitta. “Deciso a sfuggire il tuo tempo che soffia e ribolle, non abile a prendere il passo di un mondo che corre”, la via d’uscita più facile è aggrapparsi a modelli già esistenti e radicati, difendendoli attivamente o, semplicemente, abbandonandosi al loro flusso.
Fai parte di un gregge che vive ignorando il domani
E corri da un lato e dall'altro ad un cenno di cani
Il mito di un lupo mai visto ti ha fritto il cervello
E corri persino se il branco ti porta al macello.
Così, per voltarci dall’altra parte rispetto a un futuro che ci fa paura ci abbandoniamo al centro del fiume, scorriamo con esso e, così, corriamo via. Fuggiamo. Anche se non sappiamo dove, anche se è rischioso, perché tanto davanti a quei rischi ci copriamo gli occhi.
Questo fiume mi ricorda un po’ l’Acheronte, il fiume degli ignavi. Quelle anime che non si schierano, che corrono via e si lasciano trasportare, che si abbandonano alla corrente per non dover nuotare, per poi ritrovarsi incastrate in un Antinferno da cui non possono uscire. Né dannati né beati. Né santi né eroi.
Ma “non senti che stanno chiamando con voce di tuono”?
È il richiamo dell’Unicità contro l’omologazione, della rivendicazione contro quella sensazione di sconfitta, dell’attivismo contro il disimpegno. Riprenderci la scena e pretendere – sì, pretendere – di essere protagonisti del nostro tempo. Non ne abbiamo un altro, e adesso tocca a noi.
L’ho detto e lo ripeto: abbiamo qualcosa da dire, ma non sappiamo a chi dirlo. La proposta, allora, è quella di renderci interlocutori di noi stessi. Ritrovare una solidarietà generazionale che ci ricordi che non siamo in competizione gli uni con gli altri, che la mia vittoria non è la tua sconfitta, che fare rete è meglio che guardare al proprio cortile. Siamo una generazione che dai propri genitori ha ereditato le sconfitte senza aver potuto godere delle loro vittorie. Ci portiamo dietro l’onere di un boom economico che ha fissato gli standard, e di un declino che ci impedisce di raggiungerli. Abbiamo, però, l’onore e il merito di essere riusciti a stare a galla in questa foresta oscura. Non sempre, non come ci si aspetterebbe. A modo nostro e con i nostri linguaggi. E se non abbiamo qualcuno che ci ascolta, porgiamo l’orecchio a chi abbiamo vicino. Creiamo reti di ascolto e di supporto. Costruiamo un mondo che parli la nostra lingua, che impari le nostre nuove parole.
Siamo immersi nel fiume, ma nulla ci impedisce di nuotare controcorrente.
Questa settimana, a cimentarsi con noi in questo esperimento è stata Cristina, che ci racconta così la sua illustrazione:
Nonostante la canzone parli di nascondersi e di immobilità, mi è sembrata una condizione così disturbante da voler disegnare le acque agitate che sommergono chi continua a rifiutare la realtà o gli stimoli esterni.
Negandosi così la possibilità di vivere una vita a colori.
Anche questa volta, mi piacerebbe conoscere le vostre riflessioni sulla canzone e parlarne un po’. Per due chiacchiere veloci, sulla nostra pagina Instagram trovate sondaggi e box domande. Per feedback più articolati, potete mandare una mail a redazione@educationaround.org
Se volete recuperare i vecchi contenuti e supportare le nostre attività, sapete dove trovarci. Se non lo sapete ancora, ecco i nostri canali: