Ricordate quando dicevo che aprirsi all’Altro suscita spesso il timore di perdersi in esso? Che quando non si è a proprio agio con se stessi ci si sente minacciati dall’Altro?
Questa volta uso una nuova parola: la paura dell’Altro risulta spesso dal sentirsi in competizione con esso.
E allora eccola, l’immancabile etimologia della settimana: competere deriva da cum e petere, letteralmente “chiedere insieme” o “aspirare insieme”. L’ottimista che c’è in me ha voluto tradurre cum con “insieme”, ma la verità è che l’ambivalenza di questa parola è dovuta proprio all’ambivalenza di questa preposizione. Diamo un’occhiata.
Cum ha molteplici significati; quando usato come preposizione, i due principali sono “insieme” e “contemporaneamente”. Da ciascuno scaturisce una diversa accezione del verbo competere.
“Chiedere contemporaneamente”, o “aspirare contemporaneamente”, suggeriscono l’idea di due contendenti che gareggiano per accaparrarsi il premio, in opposizione per ottenere qualcosa che non basta per entrambi. Suggeriscono, quindi, l’immagine di una gara.
La gara si inserisce nella ormai ben nota narrativa dei traguardi, che spinge la linea dell’arrivo sempre più in là, non consente di fermarsi, rende disposti a tutto per vincere. Arrivare vale più di partecipare, la vittoria prevale sulla partita. D’altro canto, la sconfitta è assoluta e senza possibilità di riscatto: non hai raggiunto il tuo traguardo perché non ti sei impegnato abbastanza, perché non sei all’altezza. Rialzarsi diventa dunque difficile, perché quella sconfitta è un marchio a fuoco.
Molte scuole, purtroppo, abbracciano ancora questa narrativa dei traguardi, in cui lo sport è presentato come una gara. L’ora di educazione fisica è, nel migliore dei casi, una performance: il tuo corpo si ‘esibisce’ in attività per cui non è stato preparato, per poi vedersi assegnato un numero che ti dice quanto bene lo stai usando. Le tabelle standardizzate per la valutazione, poi, sono l’apice di questa passerella che non conosce flessibilità, e usa gli stessi parametri che, lungi dal promuovere un pluralismo che valorizzi tutte le Unicità, impongono una omogeneizzazione che si nasconde dietro una facciata di equità, ma non fa altro che sedimentare i privilegi e affossare chi resta indietro – come la meritocrazia, ricordate?
Quando ero al liceo, durante le ore di educazione fisica vigeva un regime del terrore. Ricordo persone svenire per prendere una sufficienza, come ricordo il mio 5 perché avevo il battito cardiaco troppo veloce. No, non avete capito male: ho ricevuto un’insufficienza – e prima ancora un voto, qualunque esso fosse – per qualcosa che non potevo controllare.
Ricordo anche la vergogna che attraversava i volti dei miei compagni quando, pur sforzandosi il doppio, il triplo, pur tentando di superare tutti i propri limiti, non riuscivano a raggiungere la sufficienza. Ricordo le scuse che cercavano per non partecipare all’ora di ginnastica, e l’imbarazzo di quando invece non avevano scelta. Io ero privilegiata: in quel periodo praticavo sport a livello agonistico, e non sono mai dovuta svenire per raggiungere la sufficienza (battito cardiaco a parte). La mia critica, quindi, non è dettata da un interesse personale; anzi, la mia voce serve proprio a parlare per chi, arrancando, non veniva creduto quando si lamentava di ciò che accadeva in quelle ore, “perché vuoi solo un bel voto senza impegnarti”. Cara prof, spero mi stia leggendo: serve davvero la voce di un’ex alunna per dimostrarle che no, non voler svenire in classe non è uguale a chiedere un bel voto gratis?
Il problema dell’educazione fisica è che ha la memoria corta, e spesso si dimentica che il suo fulcro è l’educazione, e non la valutazione. Così, da spazio di espressione e cura del proprio corpo l’ora di ginnastica diventa un momento di valutazione sul corpo, determinato da un numero che ne assegna il valore.
Una valutazione di tipo performativo, quindi, produce una oggettificazione del corpo, che diventa cosa di cui disporre, spettacolo a cui dare un voto. Diventa altro rispetto alla soggettività dello studente, in quel dualismo tra corpo e mente che le strutture della nostra società – in cui la scuola si inserisce e con cui si relaziona – proprio non ne vogliono sapere di smantellare. Il corpo, dunque, diventa proprio quell’Altro di cui si ha paura, da cui ci sentiamo minacciati, con cui competiamo.
Così, senza neanche accorgersene, si cade in un rapporto malsano con il proprio corpo. Si cominciano a sentire due voci nella testa: una ti dice che stai male, l’altra che devi dimagrire. Una implora di chiedere aiuto, l’altra la zittisce: se guarisci, poi ingrassi. Una che ti reputa persona, l’altra corpo. Una Unicità, l’altra massa da minimizzare, da rendere sempre più piccola, così leggera da non pesare su niente e nessuno.
Se non ti nutri non avrai le forze per fare niente.
Ovvio che non resisti neanche cinque minuti di corsa, guarda quanto sei debole!
Se non perdi qualche chilo non supererai la verifica di ginnastica.
È primavera, dobbiamo prepararci alla prova costume!
Ho mangiato tantissimo, da domani a dieta!
Ma di cosa ti lamenti tu, che sei uno stecchino?
Ti piace la pallavolo? Ma con quelle braccine?
Non avrai qualche chilo di troppo per giocare a calcio?
Pensate cosa significhi sentirsi ripetere queste frasi a quattordici, quindici, sedici anni, quando la vostra personalità è in piena fase di fioritura e la vostra Unicità sta prendendo forma. Pensate, davanti ad altre venticinque persone, di prendere un’insufficienza perché il vostro corpo non rientra in una tabella preconfezionata di parametri con la pretesa di sentenziare sul vostro valore.
Pensateci, prima di diventare insegnanti di educazione fisica, o di assumerne uno. Chiedetevi se quella persona ha una sensibilità adatta a formare dei giovani adulti, ad educarli alla relazione con se stessi e con il proprio corpo, con il cibo e con la propria salute. Pensate a quanto impatto abbia quella materia che ritenete solo un’ora buca in cui ripassare. Pensate agli effetti psicologici di quel commento che fate mentre uno studente sviene per guadagnarsi una sufficienza.
E allora vengo al dunque, alla scuola che mi piacerebbe vedere. Giungo al secondo significato di competere, quello di “chiedere insieme”, “aspirare insieme”. Giungo a quell’accezione che suggerisce un obiettivo comune, un percorso da intraprendere in compagnia. Quell’accezione che sottintende collaborazione, che non è una gara ma una sfida.
La sfida è in primis con se stessi, e a differenza della gara non è antagonistica. È correre e crescere insieme, nella stessa direzione, confrontarsi con altre Unicità mentre si costruisce la propria.
Pensate a uno sport di squadra: cosa sarebbe una squadra di pallavolo di soli alzatori, soli liberi, soli centrali? Non sarebbe nulla, perché non sarebbe una squadra. Non funzionerebbe. La competitività è sana quando essere diversi è una ricchezza, perché pezzi complementari si incastrano e funzionano soltanto nel loro complesso.
La competitività è sana quando funziona come un proposito, non come una spinta. Quando pone un obiettivo ma non costringe a raggiungerlo a tutti i costi, quando sprona a superare i propri limiti ma insegna a sapersi fermare, quando unisce la squadra ma rispetta l’avversario. Ancora una volta, è tutta una questione di sapersi relazionare: con sé in primis, con l’Altro di conseguenza. Se si sta bene con se stessi, stare con gli altri sarà sempre una fonte di ricchezza per tutti, e mai di perdita personale.
A scuola, una competitività sana implica che l’educazione fisica se lo ricordi, di essere prima di tutto educazione. E che il suo compito, dunque, è quello di tirare fuori ciò che non può uscire nelle ore di lezione frontale, in cui si sta seduti e non ci si muove. È quello di agevolare il processo di fioritura, e non di giudicare il fiore che ne viene fuori. Quello di accompagnare lungo il percorso, a prescindere dal traguardo.
Non è compito della scuola rendere i propri alunni degli atleti professionisti; per quello esistono le società sportive (che ognuno sceglie liberamente, in base alla propria inclinazione e allo sport che più preferisce). La scuola, piuttosto, deve essere uno spazio dove imparare che il nostro corpo non ci è estraneo, e che relazionarvisi in modo sano non è solo una questione di estetica, ma di salute mentale. Perché sì, basta con questa storia che il corpo e la mente sono due cose diverse – o, peggio ancora, che se hai un disturbo alimentare sei ossessionato dal tuo aspetto fisico, sei superficiale, cerchi attenzioni.
I disturbi alimentari sono malattie mentali. Malattie, non “un altro modo di esprimere la propria sensibilità”. Mentali, perché il punto non è il cibo.
Cosa vorrei dalla scuola?
Vorrei che valutasse non i traguardi, ma il percorso. Non tramite tabelle standard, ma misurando il progresso personale. Non sulle prestazioni, ma sull’impegno, sulla partecipazione, sul rispetto dei valori connessi allo sport.
E che gli studenti li valorizzi, invece di denigrarli.
L’illustrazione di questa settimana è stata realizzata da Ilaria, che ce la racconta così: “Competizione, sfida che si trasforma in gara dove si è disposti a tutto per vincere. L'arrampicata, sportiva e sociale, dove a volte viene meno la correttezza e l'onestà. Competere con il proprio corpo. Non sentirsi all'altezza. Questa ansia da prestazione che avvolge la mente nel caos della vita, generando immobilità, colpendo la mente e il fisico. Malattia che ti avvolge come una pianta parassita che ruba il nutrimento all'ospite.”
I nostri consigli di questa settimana:
Se voi o qualcuno a voi caro soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare, il Centro DCA ha un sito e una pagina Instagram. Vi consiglio anche peso_positivo, il progetto di Giulia e Beatrice, due ragazze che sono uscite da quello che sembra spesso un vicolo cieco.
Sempre sul tema, nel podcast Specchio Fiorenza Sarzanini incontra ragazzi e ragazze giovanissimi che stanno attraversando o hanno attraversato un percorso di guarigione, e dialoga con loro e con i loro genitori.
Il numero verde SOS Disturbi Alimentari: 800180969
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