Negli scorsi numeri abbiamo alzato lo sguardo verso la cima della montagna, poi lo abbiamo riabbassato per stare attenti a dove mettiamo i piedi. Abbiamo pensato in grande, ma lo abbiamo fatto attraverso le domande più banali.
Questo continuo movimento, l’incessante cambio di prospettiva – che ricorda un po’ il dito di Platone puntato verso il cielo e quello di Aristotele che indica la terra nella Scuola di Atene – ci colloca in una posizione intermedia e in un certo senso centrale. Come l’ago di un compasso che fa da perno per disegnare una circonferenza perfetta, la nostra posizione ci permette di ruotare lo sguardo di 360 gradi, allungarlo e poi ritrarlo, espanderlo o circoscriverlo.
Non solo: l’ago del compasso segna quel punto che riesce non semplicemente a cogliere ogni parte della circonferenza, ma a farlo dall’interno. Non è uno spettatore esterno, il suo vicino di casa sul piano cartesiano; piuttosto, è un abitante di quella stessa casa, che muovendosi al suo interno ne esplora le stanze.
E noi ci pensiamo proprio come l’ago di quel compasso: viviamo in un universo che osserviamo come un puntino infinitesimale al suo interno, ma al tempo stesso è proprio quella prospettiva, piccola e centrale, che modella l’idea che ci facciamo di esso.
Da Icaro e le sue ali di cera al folle volo di Ulisse, l’essere umano tenta sempre di oltrepassare i propri limiti, intuendo l’infinito ma non riuscendo a coglierlo. Lo avvertiamo come un richiamo invisibile che orienta i nostri passi, come una voce che sentiamo ma non riusciamo a localizzare, poiché collocata oltre ciò che siamo umanamente in grado di afferrare.
Riusciamo a pensare all’universo e alle galassie, ma non riusciamo a comprenderne la magnitudine. Avvertiamo l’Infinito e l’Oltre, ma non riusciamo a visualizzarli. La nostra finitezza ci costringe a determinare, che poi vuol dire tracciare confini e quindi limitare, mentre l’orizzonte che ci abbraccia non ha un inizio né una fine. Dunque non lo comprendiamo, perché siamo contenuti finiti in una realtà che ci supera e prescinde da noi.
Questa mancata comprensione ci fa paura. Così, insieme alla domande banali che non ci poniamo perché le riteniamo troppo piccole, smettiamo di porci anche quelle complesse, che a loro volta ci fanno sentire piccoli. Perché se lo facessimo scopriremmo tutta la nostra fragilità, percependo la nostra irrilevanza e avvertendoci come un nulla in quel tutto così grande da esserci indifferente.
Eppure quell’orizzonte lo intuiamo, e in virtù di questa nostra capacità occupiamo già una posizione privilegiata al suo interno. La condizione umana è strutturalmente capacità di orizzonte, perché siamo in grado di sentirne l’immensità, di immedesimarci con ogni contenuto che ne fa parte, di farci noi stessi orizzonte allargando lo sguardo.
Del resto, l’ago del compasso è il perno attorno al quale la circonferenza viene tracciata, e nella sua piccolezza è quindi un elemento imprescindibile. Allo stesso modo, il nostro sguardo è microscopico e parziale, ma permette di tracciare dei confini – artificiali – che nel loro insieme formano una mappa che permette di dare una forma al percorso e un orientamento ai passi che seguono quel richiamo invisibile.
Siamo costantemente immersi in una dialettica incessante tra la finitezza della nostra condizione e l’infinitezza dell’orizzonte in cui essa è collocata. Tra l’immensità della nostra ambizione e la limitatezza della nostra capacità di comprensione. Tra il desiderio inesauribile di superare noi stessi e il sole che scioglie le nostre ali di cera.
E al tempo stesso ci dimentichiamo di ciò che è infinitamente più piccolo di noi, tanto da non riuscire a vederlo – così come, se quell’orizzonte avesse un suo sguardo, non sarebbe in grado di coglierci. Così come l’ago del compasso è fatto di metallo, che a sua volta è fatto di molecole, e prima ancora di atomi.
Siamo, insomma, il punto d’incontro tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Questa posizione intermedia e privilegiata è spesso accompagnata dall’irrequietezza di una performatività che ci chiede di non fermarci mai, di mostrarci sempre nella versione migliore di noi stessi, di produrre crescita, andare veloci, indossare sempre un sorriso e darsi da fare. E, complementarmente, nascondere tutto ciò che può farci apparire piccoli o fragili, sopprimere le emozioni che ci fanno sembrare deboli agli occhi di un mondo che la debolezza la emargina come non fosse umana, celebrare il traguardo dissimulando la fatica del percorso.
Ma se cambiassimo prospettiva ancora una volta, e all’impazienza di essere, fare, avere sempre di più si sostituisse, infine, un senso di liberazione?
Mi spiego meglio. Se invece di pensare a ciò che non possiamo essere lavorassimo su ciò che siamo? Se quell’orizzonte che non riusciamo a cogliere non fosse un muro contro cui andiamo a sbattere, ma anzi un campo in cui muoversi per migliorarsi? Se dei suoi standard infiniti facessimo non degli ideali cui aderire, ma degli spunti da trasformare e adattare alla nostra dimensione?
Se essere piccoli non fosse un motivo di vergogna, ma di rivendicazione?
È vero, siamo esseri finiti all’interno di un universo infinito. Ma infiniti non potremo mai diventarlo, e questo ci solleva da quella pretesa di perfezione che ci fa sentire responsabili delle sorti del mondo.
Non siamo impotenti, ma possiamo muoverci all’interno di un confine tracciato dai nostri limiti. Forse stiamo solo sbagliando direzione:
Inutile che cerchi di trovare con una lettura lineare
Un bandolo, questo cervello dev'esser matassa, si deve increspare
Aggrovigliarsi, insenarsi, fare rete
Continuiamo a guardare avanti senza guardarci intorno, ad ambire al traguardo senza curarci del percorso, a cercare una lettura lineare senza notare chi sta camminando lungo la nostra stessa strada. Andiamo in cerca di una crescita continua, ma a cosa serve crescere da soli? Che ce ne facciamo di un orizzonte infinito se non abbiamo nessuno con cui condividere la nostra finitezza? Cosa ci resta di questa corsa se lasciamo indietro i compagni di squadra?
Te l'ho già detto, il futuro è circolare
Guardati indietro se vuoi arrivare
Del resto non si può chiedere a un compasso di tracciare una linea retta, no?
In questo numero vi proponiamo l’illustrazione di Valentina. Quando l’ho vista mi ha trasmesso proprio quel senso di fragilità e piccolezza che ho cercato di descrivere, e al tempo stesso un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, in cui siamo immersi e che può far paura.
I nostri consigli di questa settimana:
La canzone degli Eugenio In Via Di Gioia che vi ho linkato prima fa parte di un nuovo album uscito da poco, Amore e Rivoluzione, che è un inno alle piccole cose, e anche a quelle più grandi di cui spesso ci dimentichiamo. Ascolto consigliatissimo.
Sempre a partire da un link che trovate nel testo, se vi foste persi Strappare lungo i bordi, la serie di Zerocalcare, vi consiglio di andarla a recuperare. La trovate su Netflix!
Secondo consiglio musicale: anche Willie Peyote è tornato con un nuovo album, e nella canzone Fare Schifo parla proprio dell’ansia performativa della perfezione costante: “Nella società della performance ci vogliono perfetti / Sempre in forma e pure in pace con noi stessi / Senza dubbi, senza pare, senza neanche dei difetti / Oppure essere orgogliosi anche di questi / Io certi giorni vorrei solo essere triste e incazzato / E non sentirmi anche sbagliato”. Anche in questo caso, l’ascolto dell’intero album è molto consigliato.
Piccoli, fragili, limitati. Osserviamo il mondo dalle quattro pareti delle nostre stanze, in particolare negli ultimi due anni. E Bo Burnham lo racconta magistralmente nello spettacolo e album musicale Inside, che racconta un singolare - ma tristemente condivisibile - 2020 senza risparmiare alcun dettaglio.
Quanti siamo nell’universo? L’equazione di Drake permette di calcolarlo: nella nostra Galassia ci sono 90 miliardi di pianeti potenzialmente abitabili, 12 dei quali potrebbero potenzialmente ospitare la vita. Introducendo la probabilità che la vita si sviluppi in maniera sufficientemente intelligente da portare alla civilizzazione e alla possibilità di comunicare, l’equazione - che abbiamo molto semplificato - arriva a 46 civiltà di questo tipo. Moltiplicato per il numero visibile di galassie dell’Universo, siamo a 6.9 trilioni. Abbastanza, vero?
Se volete essere stupiti dall’infinitamente grande, la NASA ha costruito un portale in cui seleziona un’immagine dell’Universo ogni giorno, accompagnandola da una breve spiegazione o commento di un astronomo. Il progetto è iniziato nel 2015, e nell’archivio potete trovare tutte le immagini selezionate da quel momento ad oggi.
Per colmare la nostra sete di infinito, non potendo controllare né immaginare l’universo, ne abbiamo creato uno totalmente nostro che, per quanto complesso, ricade nel nostro orizzonte: qualcuno lo ha chiamato metaverso, una sorta di evoluzione del concetto di cyberspazio. È accessibile, e anzi ne esiste già più di uno.
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