Siamo giunti alla conclusione del nostro esperimento musicale, sulle cui note i miei e i vostri pensieri si sono incontrati. Oggi lo facciamo per l’ultima volta (per ora). Se ci siete stati fin qui, sapete già come funziona. Se siete appena arrivati, benvenuti; le regole del gioco le trovate qui.
Vi ho detto più volte, negli ultimi tempi, che questa newsletter la vedo come un dialogo tra amici, che in ogni numero ci fa conoscere meglio, e apre delle nuove porte verso un incontro – virtuale o non – non solo tra autrice e lettori, ma soprattutto tra persone che si trovano in uno stesso luogo perché, credo, condividono qualcosa. Qualcosa di intimo e profondo, tra l’altro, perché i temi di cui chiacchieriamo fanno parte delle vite di tutti, le modellano, ci rendono le persone che siamo.
Perché questo preambolo? Perché con la canzone che vi propongo oggi faccio un passo più lungo del solito verso di voi, permettendovi di fare un tuffo tra le note di un cantautore che di me dice tanto. Che fa vibrare in me delle corde tanto profonde, tanto personali, che condividere con voi i pensieri che emergono al suo ascolto significa abbattere un muro e parlarvi della me più vera, più autentica, tra ideali propugnati e debolezze spesso camuffate.
Prendetevene cura, e stavolta più che mai cercate di seguirmi in questo percorso.
E un’altra volta è notte e suono … e voglio in questo modo dire “sono”
Quante volte vogliamo dire “sono”? Quanto spesso cerchiamo di ricordare, a noi stessi e agli altri, che siamo e che ci siamo, che non siamo un numero di matricola, una scrivania da occupare, un ingranaggio della macchina?
È vero per tutti. Per chi si fa voce e per chi si nasconde. Per chi è etichettato come vincitore o come sconfitto, per chi corre e per chi si ferma. Bambini o adolescenti, giovani, adulti e anziani; tutti, prima o poi, vogliono dire “sono”.
È vero, questo, soprattutto per i giovani, quelli di cui abbiamo parlato l’ultima volta. È vero per tutti coloro che vorrebbero vedersi visti, ascoltati, riconosciuti per ciò che sono e non per ciò che hanno. Che, invece, si vedono sminuiti, svalutati, screditati. E che si sentono dire, tra l’altro, che è colpa loro: se non si sono laureati in tempo perché dovevano lavorare per mantenersi, se hanno abbandonato gli studi perché non potevano permetterseli, o non avevano scelto una strada adatta a loro, o sono stati sottoposti a condizioni di stress tali da costringerli a gettare la spugna. E, neanche a dirlo, non tutti possono permettersi di aggiustare il tiro dopo una deviazione sul percorso.
E allora arrivano le domande invadenti della più severa auto-inquisizione.
A dir "dove ho mancato, dov'è stato?"
A dir "dove ho sbagliato?"
Il problema, però, è che nella narrativa dei traguardi si manca sempre. Non c’è via di scampo: quel senso di vuoto resta dopo ogni successo, perché quella che sembrava la meta si rivela nient’altro che un piccolo step verso il Grande Traguardo Finale, perché ogni conquista non si festeggia, ma si accantona frettolosamente per correre dietro a qualcosa di nuovo – proprio quella sensazione che, ad ogni tappa delle nostre vite, ci fa dire e adesso?
Il punto è che il Grande Traguardo Finale non ha volto e non ha forma. Semplicemente non c’è, perché il senso del traguardo, nel sistema che abitiamo, è proprio quello di farci continuare a correre. Spostandosi così sempre di più e lasciando un sapore di fallimento, perché quella linea non riusciamo mai a tagliarla.
Così, anche quando sembra quasi che “arriviamo” non riusciamo a goderci il successo e ci sentiamo degli impostori, che per essere dove sono adesso devono aver certamente ingannato qualcuno, e prima o poi saranno smascherati. Perché del resto, pare, se vali non vali abbastanza, e se vali quel tanto in più devi farti strada a scapito degli altri. In entrambi i casi, stai imbrogliando.
Vi paiono le condizioni, queste, per sognare?
E le morali han chiuso i vostri cuori e spento i vostri ardori.
Quella giovinezza che da Lorenzo De Medici a Leopardi è dipinta come culla di sogni e speranze, di progetti e ideali, si assopisce nella rassegnazione di una corsa che toglie il respiro e ci lascia sconfitti ed esausti. Una coppia interessante, quella di corsa e assopimento, che ben descrive quella dialettica del non fermarsi mai ma non arrivare da nessuna parte, dello spuntare la casella di questo o quell’obiettivo senza crederci davvero, del muoversi per inerzia e lasciarsi spingere da forze che non riusciamo neppure a mettere a fuoco. E la parte peggiore è che di tutto questo si fa normalità.
Del resto, al giorno d’oggi, “pensare è sconsigliato”, e in molti “ignorano quel tarlo mai sincero che chiamano pensiero”. Pensare non è mai sincero, dicono. È un mondo di secondi fini, dicono. Perché non ascolti “gli dei, i comandamenti ed il dovere”?
Viviamo in un mondo di idoli. È sempre stato così e sempre lo sarà. La secolarizzazione non ha cambiato nulla: continuiamo ad aspirare a un Oltre, e continuiamo a non poterlo raggiungere. Vogliamo chiamarlo Dio con la D maiuscola? Vogliamo chiamarlo Grande Traguardo Finale? Fa davvero la differenza? O resta il fatto che ogni divinità ha il suo culto, perché ogni irraggiungibile finisce per piegarsi su se stesso e rendersi umano, accessibile, raggiungibile?
Siamo impotenti, amiche e amici, davanti a ciò che ci sfugge. Che sia a causa della nostra manchevolezza o della perversione di un sistema che va di corsa, ci sentiamo impotenti e cerchiamo di rimediare. E rimediamo piegandoci su noi stessi e su ciò da cui siamo mossi, fuggendo quel senso di inadeguatezza tramite un culto di quei pochi elementi su cui abbiamo il controllo, o ci illudiamo di averlo. Se la narrativa dei traguardi è così centrale, avranno ragione loro. Se volere è potere, avranno ragione loro. Se dicono che non sono brava abbastanza, ci credo. E così divento un ingranaggio di quello stesso sistema che mi opprime.
Mi chiedo, allora: come si fa ad essere liberi?
Scusate, non mi lego a questa schiera
Morrò pecora nera
Luogo comune, mi direte, sostenere che essere liberi voglia dire essere pecora nera in mezzo al gregge di pecore bianche. Va bene, è vero. E ne abbiamo anche già parlato, due numeri fa, del fatto che gli ideali ciechi non vadano da nessuna parte. Io stessa ho sottolineato che resistere significa spesso farlo dall’interno. Mi appoggio ancora una volta, allora, alle parole di Guccini:
O forse non è qui il problema
E ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi
E ognuno costruisce il suo sistema
Di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali
Con questo voglio dire che nessuno è perfetto. Siamo umani e dunque contraddittori, e dunque ipocriti, e dunque succubi di idoli e governati da culti cui spesso non sappiamo di essere devoti.
A ciascuno i propri altarini, a ogni perfezionista le proprie incoerenze, a ogni altruista la propria dose di egoismo. Ma a ciascuno anche la propria umanità e il diritto di essere imperfetti. Essere pecora nera, credo, sta proprio nel riconoscerlo e rivendicarlo. Riconoscerlo, dunque assolvere gli altri. Rivendicarlo, dunque prendersene la responsabilità. Non mascherarsi dentro al gregge, ma tornare alla limpida, terenziana affermazione: homo sum, humani nihil a me alienum puto (“sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo estraneo a me”).
Ciascuno, poi, può essere pecora nera a modo proprio. Per Guccini cantare in un bar fino a tarda notte. Per me questa newsletter, in cui porto avanti la decisione ben definita di non scendere a compromessi per tentare di compiacere anche ciò contro cui dichiaro la mia resistenza.
E, allargando lo sguardo, questo progetto si fa voce di una comunità di pecore nere che di questa responsabilità fa la sua missione. La missione di costruire una scuola che formi gli abitanti di un mondo nuovo, dove tutti sappiano, vogliano e possano dire “sono”.
Poi la bottiglia è vuota.
Con l’immagine della bottiglia vuota concludo il nostro esperimento, vi saluto e vi invito a riempire questo spazio. Riempitelo di parole e di sogni, o piantateci un fiore. Qualunque sia la vostra scelta, non dimenticate di rivendicare ciò che siete.
L’illustrazione che vi proponiamo questa settimana è il frutto dell’esperimento condotto da Cristina. Come al solito, non saranno le mie parole a descrivere il percorso di qualcun altro; non posso fare a meno, però, di emozionarmi un po’ alla vista di questa gigante pecora nera che racchiude in sé pianeti, costellazioni, e in fondo probabilmente tutta la nostra umanità. Se c’è qualcosa che questa canzone, e Guccini in generale, significano per me, è sicuramente questo.
Negli ultimi due numeri abbiamo avviato un percorso che si conclude oggi. Tiriamo le somme e riassumiamo le tappe:
Le vecchie narrative non ci parlano più, ci servono nuove parole.
Queste nuove parole non sono ascoltate da tutti, perché veicolano un linguaggio ancora poco compreso dai più.
Rivendicare ciò che siamo non significa dimenticare le vecchie parole, ma comprenderne l’imperfezione e prendersene la responsabilità, mentre si cerca di superare i vecchi linguaggi per adattarsi completamente a quelli nuovi.
Riprendo brevemente la sezione consigli per segnalarvi un podcast che tenta - meglio di me - esperimenti simili, ripercorrendo gli anni che hanno segnato l’Italia contemporanea attraverso dei dischi che hanno fatto la storia. Si chiama Romantic Italia, di Giulia Cavaliere.
Ancora una volta, adesso tocca a voi condurre l’esperimento. Avete tre canzoni a vostra disposizione; sceglietene una, due o tutte, e raccontatevi cosa vi dicono. Potete farlo sulla nostra pagina Instagram tramite i sondaggi che troverete nelle stories, oppure scrivendo una mail all’indirizzo redazione@educationaround.org
Per il resto, ci trovate sempre nei soliti posti: