Genova non ha scordato perché è difficile dimenticare
C'è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare
La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l'onda
Ritorna come sempre, quasi normale, piazza AlimondaFrancesco Guccini, Piazza Alimonda
Ritornano come sempre, quasi normali, i giorni del G8 di Genova nel 2001: Piazza Alimonda, la scuola Diaz, la caserma di Bolzaneto.
Dopo fatti di una tale ferocia, la consuetudine è quella di avviare il processo del per non dimenticare, adottare misure perché non si ripeta – almeno in apparenza.
Eppure, dopo Genova qualcosa è andato storto in questo meccanismo correttivo: i pestaggi da parte delle forze di polizia non si sono fermati. Al contrario, sono diventati sempre più sistemici: queste violenze di Stato portano (tra gli altri) i nomi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e Lamine Hakimi, si propagano da Milano a Livorno, da Verona a Santa Maria Capua Vetere, fino a Piacenza, Modena e Ascoli. Persino a Palermo, quando un corteo studentesco pacifico che avanzava al grido “Fuori la mafia dallo Stato” è stato bloccato dalla polizia durante l’annuale commemorazione delle vittime della strage di Capaci lo scorso 23 maggio, perché “disturbava la manifestazione ufficiale”.
Quindi dove sta il cortocircuito?
Facciamo un passo indietro:
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
E se il popolo, nella forma di una società, si organizza all’interno di Istituzioni – tra cui le forze di polizia –, queste ultime devono esserne specchio, tutelarlo, garantire per esso l’esercizio della libertà.
Eppure, non di rado le forze dell’ordine assumono un certo atteggiamento antagonistico nei confronti dei cittadini e delle cittadine con cui si interfacciano. Come se l’ordine che sono incaricate di mantenere non fosse altro che una facciata di calma piatta, un va tutto bene reiterato per autoconvincersi, e qualunque elemento di disturbo – categorie umane scomode: persone povere, detenuti, tossicodipendenti, immigrati e immigrate – diventasse automaticamente ostile per aver fatto vacillare il va tutto bene con la propria vulnerabilità.
Ci troviamo, credo, davanti a una rappresentazione invertita: le forze di polizia, che rispondono alla Costituzione e devono farsi portatrici dei valori dello Stato da essa regolamentato, ribaltano l’identificazione e affermano che, se “lo Stato siamo noi”, allora lo Stato sarà – e legittimerà – qualsiasi cosa decideranno di essere. Come scrive Guido Rampoldi,
in sostanza l’agente rivendica il diritto suo e dei suoi compagni ad auto-normarsi al di fuori della legalità. È come se dicesse: la mia tribù ha occupato un segmento dello stato e in quel territorio, quando noi lo decidiamo, non c’è legge che possa opporsi alla nostra volontà.
Ma non è automatico che questa illusione di poter legiferare per sé, questa pretesa di auto-normatività, si trasformi in comportamenti abusanti nei confronti di alcune categorie di cittadini e cittadine. Perché succede?
Che non si tratti di poche mele marce è evidente. Bisogna cercare all’interno dei meccanismi intrinsechi all’ambiente delle forze dell’ordine per trovare l’elemento di degenerazione – cui non tutti e tutte soccombono, naturalmente: il fatto che ci siano poliziotti e poliziotte che svolgono il proprio lavoro correttamente e appassionatamente non elimina la degenerazione in sé.
Vediamo insieme questi meccanismi intrinsechi: reclutamento, formazione, sanzionamento.
Nei concorsi per il reclutamento delle forze di polizia esiste un’aliquota riservata agli ex militari di leva volontaria. Perché un militare e un poliziotto non siano due ruoli così assimilabili lo spiega Maurizio Fiasco, per quasi trent’anni professore nelle scuole e aggiornamento di polizia:
L’esperienza militare è maturata sui teatri di guerra, in lunghi giorni vissuti guardandosi dalla minaccia dall’esterno, su una coesione di gruppo separato che avverte un “noi soldati” contrapposto agli “altri”, tra i quali si annidano i nemici. Ne deriva peraltro una sofferenza, che ingenera una visione (anche se non mancano esempi di sostegno sociale alle popolazioni) da guarnigione in caserma: è distante anni luce dall’identità civile di servizio al cittadino, che è invece il cardine del servizio nella polizia di Stato.
Militarizzare le forze di polizia significa importare un paradigma di guerra che, come dicevamo nello scorso numero, presuppone l’annullamento della controparte – necessariamente ostile – per la propria sopravvivenza.
Le caserme fanno parte di quelle che Erving Goffman chiamava istituzioni totali, ossia luoghi in cui l’individuo è fatto coincidere esattamente con la sua identità istituzionale mediante l’allontanamento dal resto della società e il controllo centralizzato.
Per capirci meglio: ogni persona è composta dall’intreccio di diversi livelli di identità, derivanti dai diversi ruoli sociali che ricopre. Un’insegnante a scuola può essere anche una sportiva nel tempo libero, una madre a casa, e ancora un’altra persona quando è completamente da sola. Un militare, una volta entrato in caserma, è solo un militare. Qualsiasi altra sfera della sua persona è come messa in pausa.
Ironicamente, fanno parte delle istituzioni totali anche le carceri, dove i detenuti e le detenute sono isolati e riconosciuti esclusivamente sulla base del crimine da loro commesso, deprivati di tutto ciò che è loro, persino i diritti – e infatti li si tratta come se si stessero estirpando dei reati, non delle vite.
Soffermiamoci un attimo su questo parallelismo. Molto spesso, una persona che commette un crimine proviene da una situazione di difficoltà economica e isolamento sociale, cui trova la sua unica risposta nell’illegalità. Altrettanto spesso, a partecipare ai concorsi per entrare nelle forze di polizia sono persone in una simile difficoltà economica, che trovano in esse un mercato del lavoro abbastanza stabile, con una domanda molto elevata e una paga dignitosa.
In un contesto di esclusione sociale, in cui il senso di appartenenza a una comunità è sconosciuto, spesso l’unico linguaggio che si è in grado di parlare è quello della violenza. Nella maggior parte dei casi, alla fine ci si ritrova da un lato o dall’altro delle sbarre.
E allora arriviamo al secondo meccanismo intrinseco, la formazione.
Proprio la presenza di reclute provenienti dal servizio militare inviterebbe a una maggiore attenzione nei confronti dell’approccio impartito alle forze di polizia, per correggere certe deformazioni professionali ed educare a un senso di collettività come cittadini prima ancora che come poliziotti – tutto il contrario di un’istituzione totale –, al cui interesse si deve rispondere e prestare servizio.
Nondimeno, dovrebbe educare a sradicare quel machismo che impedisce di cercare supporto psicologico per non incorrere in una limitazione delle proprie mansioni o nell’isolamento da parte dei colleghi, fino al punto di preferire il suicidio.
È lampante: in assenza di una formazione adeguata – giustificata dall’urgenza del reclutamento –, l’isolamento genera nuovo isolamento e continua ad alimentare il circuito della violenza. Però con una pistola in mano, che troppo spesso si finisce per puntare contro se stessi o contro qualcun altro.
Infine, il sanzionamento, pressoché assente all’interno delle forze di polizia – dovuto, tra le altre cose, all’assurda mancanza di codici identificativi – e sproporzionato nei confronti dei malcapitati e delle malcapitate che diventano di volta in volta obiettivi del loro antagonismo. Un problema non invisibile ma certamente ignorato, dal momento che persino la vitale legge sul reato di tortura, per cui si è lottato per anni e finalmente ottenuta soltanto nel 2017, rischia di essere abrogata.
Reclutamento, formazione e sanzionamento sono i tre snodi che fanno potenzialmente inceppare l’organizzazione. La portata di questi fenomeni, però, non deve farci abbandonare al fatalismo di una lotta contro i mulini a vento.
In primo luogo, abbiamo trovato i tre punti su cui agire. Non sono qui, naturalmente, per trovare una soluzione a un problema così più grande di me, però da qualcosa bisogna pur partire. E sul fatto che questo qualcosa sia l’educazione ho pochi dubbi, perché le istituzioni non sono altro che lo specchio della società che rappresentano.
E dunque educare all’inclusione, perché l’isolamento sociale è la scintilla che fa partire questo grande meccanismo.
Educare a nuovi linguaggi, perché la violenza non sia l’unica modalità di espressione conosciuta in certi ambienti.
Educare alla vulnerabilità e alla sua accettazione, perché tutto ciò che non trova strade per uscire finisce per implodere.
Educare al fatto di essere una e più persone insieme, non solo una divisa o un crimine da estirpare.
Rieducare chi ha sbagliato, perché le carceri non siano ulteriori mezzi di esclusione ma strumenti per conoscere nuovi lati di se stessi e se stesse e attraverso quelli reinserirsi nella società da cui si sono allontanati.
Educare a restare vigili, perché ogni abuso è una minaccia a una collettività – anzi, un’umanità – da salvaguardare. E a saper alzare la voce per dire che non sono queste le istituzioni che vogliamo, perché a travolgerci non sia proprio chi dovrebbe tutelarci.
Grazie a Siria per l’illustrazione di questo numero:
I consigli di questa settimana:
Un articolo di approfondimento sui fatti del G8 di Genova come elemento cardine di una memoria collettiva, insieme a una raccolta di riflessioni.
Sempre sui fatti del G8, il podcast indipendente Dreamers, che raccoglie le voci di protagonisti e protagoniste di quei giorni di luglio del 2001. E anche Limoni, prodotto da Internazionale in occasione del ventesimo anniversario di quei giorni.
Qualche dato sulla situazione nelle carceri.
Se ne volete sapere di più sulle istituzioni totali vi consiglio Asylums, il libro più celebre del sopracitato Goffman. Se ne volete sapere di più ma non così tanto, qui un breve approfondimento.
Avete già guardato Questo mondo non mi renderà cattivo, la nuova serie di Zerocalcare? Io non l’ho ancora finita, ma il poco che ho visto mi fa credere che sia piuttosto in tema (e non ho dubbi sulla qualità!)
Sulla vicinanza tra carcerati e poliziotti mi è stato consigliato il film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo (2021). Anche in questo caso, non l’ho ancora visto ma vi giro il consiglio.
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