Discutere per un parcheggio. Andare a votare. Scegliere quale film guardare o dove andare a cena. Una protesta in piazza. Correre per accaparrarsi l’ultimo posto libero sull’autobus. Una negoziazione salariale. Chiedere un favore. Rispondere a una telefonata inaspettata anche se si sta facendo altro.
È nel tragitto casa-lavoro e nelle occasioni di partecipazione pubblica, nel quotidiano e nella solennità: il conflitto è multiforme e onnipresente, fastidioso e inestricabile, umano e per questo inevitabile.
Il mondo è abitato da 7.9 miliardi di persone, che sono 7.9 miliardi di esistenze, bisogni, prospettive e opinioni. Nessuna coppia di esistenze, bisogni, prospettive e opinioni sarà esattamente sovrapponibile o perfettamente compatibile. Nessun tipo di relazione può prescindere dal confronto tra esse, e nessun tipo di relazione si salva dal disallineamento.
È proprio questo disallineamento che genera conflitto: lo diceva già Kant due secoli fa, che gli esseri umani sono condannati ad una insocievole socievolezza che li induce a vivere insieme per sbocciare e al contempo li costringe a limitare la propria libertà per non appassire.
Ma la libertà, per sua natura, scalpita per potersi esprimere pienamente, senza limiti. E poiché quei limiti sono proprio le altre libertà con cui non può far altro che coesistere, allora la negoziazione non può cessare, e il conflitto non può che perdurare.
Lo diceva anche Eraclito, ben prima di Kant, che polemos – il conflitto – è il padre di tutte le cose: gli opposti (ma non solo, aggiungerei; diciamo i diversi) s’incontrano e si scontrano come nel movimento di un fuoco inarrestabile. L’armonia non si genera da sé, non nasce arrestando lo scontro: l’equilibrio può nascere solo da questa continua pulsazione di differenze, da questa discordia generatrice. A far paura deve essere piuttosto la sua assenza: laddove ci sono staticità e silenzio non esisteranno esistenze, esigenze, prospettive e opinioni. È vivo solo ciò che si muove.
Molto movimento – e molta vita di conseguenza – si è visto all’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, e in particolare nella giornata di sabato, quando la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità Eugenia Roccella è stata interrotta durante la presentazione del suo libro da attiviste e attivisti dei gruppi Extinction Rebellion e Non Una Di Meno, che ne hanno contestato le posizioni antiabortiste e la dichiarazione che “l'obiezione di coscienza è un diritto e non rappresenta un ostacolo all'aborto”. Alla ministra non è stato permesso concludere la sua presentazione, e il direttore del Salone Nicola Lagioia, chiamato in causa, ha sottolineato che la protesta può esistere in varie forme che, finché non violente, vanno rispettate – lasciando poi il palco tra i fischi e gli insulti di Augusta Montaruli, deputata di FdI al seguito della ministra.
Da lì il caos, e soprattutto l’accusa da più parti di “fascismo degli antifascisti” a seguito del rifiuto delle contestatrici di confrontarsi con la ministra (un rifiuto non del tutto netto, tra l’altro). Sindacando, tanto per cambiare, sui toni e sui modi della protesta.
Su questo serve fare un passo indietro, per una questione di equilibri di potere. Da un lato, la ministra rappresenta il potere costituito di un governo di maggioranza, occupando una posizione che le consente di fare le leggi e plasmare (o almeno provarci) le narrative dominanti di legittimo e illegittimo nell’opinione pubblica: da non trascurare, in questo senso, il fatto che 29 attivisti e attiviste sono stat* schedat* dalla Digos, mentre alla ministra è stato subito offerto un nuovo spazio per portare avanti la sua presentazione. Dall’altro, chi l’ha interrotta rappresenta una parte in causa danneggiata dalle decisioni di quello stesso potere, dal momento che le politiche adottate dalla ministra non intervengono volutamente sulle storture della legge 194 sull’aborto, di fatto reso quasi impraticabile dalla presenza capillare di medici obiettori di coscienza.
Nelle parole dello scrittore Domenico Starnone, siamo di fronte al potere e alla sua contestazione, che si propone come esercizio democratico del conflitto e deve servire, come un interlocutore privilegiato, da spinta e stimolo con cui relazionarsi attivamente: “lo scontro frontale non conviene a nessuno”, e per questo l’insurrezione è tutto il contrario del fascismo, che è invece rifiuto di quella stessa contestazione – tornando a Eraclito, un’armonia che nasce dallo scontro e non da se stessa.
Del resto, chi ha manifestato lo ha fatto proprio contro l’esclusione da un dialogo che doveva esistere nel precedente percorso di attuazione di leggi che quotidianamente impattano sulle loro vite, contro l’assenza stessa del conflitto che pervade la vita democratica. Che viene ben prima dei toni e dei modi, attaccati per minimizzare e screditare quella stessa richiesta di inclusione e ascolto.
Ci troviamo, mi pare, davanti all’opposizione tra il conflitto e l’inseguimento di un’armonia senza movimento, tra la ricerca di un dialogo e l’annientamento dello stesso.
Si dispiega così quella che potrebbe essere sintetizzata come la differenza tra conflitto e guerra. Il primo, credo sia ormai chiaro, è un processo bilaterale o multilaterale, e dunque necessariamente relazionale. E se relazionarsi significa in primis riconoscersi, quelle esistenze, bisogni, prospettive e opinioni non chiedono altro che essere viste, avere modo e spazio di sbocciare, e dunque riaffermare quella socievolezza che - per quanto faticosa e impegnativa - è l’unico modo per non appassire. Potersi muovere, trasformare, scontrare e incontrare.
La guerra, d’altro canto, è una ricerca quasi vuota di sopravvivenza, che spesso si manifesta come violenza annientatrice: se esisto io non puoi esistere anche tu, e dunque salvare ciò che ho ancora in mano vorrà dire non solo non riconoscerti, ma annullarti. Spegnerti, immobilizzarti, arrestare il movimento della tua diversità per non doverlo incontrare. Farti appassire, nell’illusione che quel terreno sarà più fecondo se non condiviso.
In questa arena solo una parte è in conflitto, mentre l’altra è in guerra. Una porta avanti una battaglia per liberare tutte e tutti; l’altra per togliere qualcosa, colonizzare i corpi per farne strumenti di potere e terreni su cui esercitarlo. Una per un movimento vitale, l’altra per un’immobilità inanimata. Una per sbocciare tutte, l’altra per far appassire alcune.
La posta in gioco non è proprio la stessa, sbaglio?
Angelica ha realizzato un’illustrazione che parla di disallineamento e diversità. Ce la racconta così:
Il confronto crea un disallineamento. Il disallineamento crea un conflitto. Il conflitto nasce anche dagli opposti, dalle diversità che ci uniscono ma anche che ci allontanano. Evitare ciò significa rinunciare ad un equilibrio che non può esserci senza il confronto e senza l'accettazione delle diversità altrui.
La accompagna, inoltre, a questa citazione:
In diversity there is beauty.
The world is diverse. It is full of diversity, variety, assortment, mix, range, multiplicity, and variations.
I nostri consigli di questa settimana:
ivgstobenissimo è una pagina instagram che fa informazione sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) raccogliendo fonti in merito alle strutture disponibili e ai medici che lo praticano, ma anche alla contraccezione e alla salute sessuale.
Il libro del potere di Simone Weil sono 128 pagine di umanità pura, della sua tendenza all’utilizzo alla forza, sul conflitto e su come questo rischi spesso di sfociare in guerra. Un viaggio che ci accompagna dall’antica Grecia ai giorni nostri attraverso tre brevi saggi.
Quest’altra intervista al già citato Domenico Starnone.
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