L’associazione tra sapere e potere, e quindi l’idea di conoscenza come dominio, è antica quanto l’uomo. È stata il motto della Rivoluzione Scientifica, dell’esaltazione della tecnica al servizio dell’umanità che, emancipandosi, domina la natura.
Da dove arriva questa rappresentazione?
Probabilmente da un malinteso. Qualcuno, molto prima di quegli anni, disse che Dio “prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.” (Genesi 2,15)
Coltivare e custodire. Che valore ha l’una senza l’altra?
Coltivare senza custodire significa gettare un seme e non innaffiarlo. Ottenere qualcosa e dimenticarsene a traguardo raggiunto, alzare il trofeo e metterlo da parte. Vuol dire, in ultima analisi, sfruttare il terreno senza rispettarlo, estrarne ogni risorsa, prosciugarne la fecondità senza riprodurla.
Per questo motivo, una domanda diventa pressante: riappropriarsi di uno spazio è abbastanza?
Ovvio che no. Abbiamo detto, la scorsa volta, che emanciparsi è conoscere, e conoscere è rivendicare e riappropriarsi. Ma qual è la linea tra riappropriazione e dominio?
Partiamo dal secondo. Dominare viene da dominus, che in latino vuol dire padrone. È una parola, questa, che appartiene a una narrazione di cui negli ultimi numeri abbiamo cercato di liberarci. Che ha come matrice un dualismo in cui uno deve soccombere perché l’altro vinca. È, insomma, una parola scritta a penna blu.
La prima, invece, è l’elemento che fa nascere quell’aurora che al contempo brucia e illumina, che demolisce per ricostruire. È quella scintilla che il mondo lo mette in luce e lo fa fiorire, che ne preserva la fecondità e la riproduce, che non ferma ma anzi sollecita il progresso.
È qui, forse, che bisogna fermarsi e guardare da più vicino. La retorica del progresso, infatti, sa accarezzare il sogno dell’emancipazione mentre ne taglia le gambe. Sa essere un delirio di onnipotenza che ignora la finitezza e ne fa, da possibilità, il nostro maggiore ostacolo. È qui che sta il gradino che della riappropriazione fa dominio, e della custodia tirannia.
Qui, dunque, la chiave: del mondo bisogna essere custodi e non tiranni. Quelle macerie, che abbiamo rivendicato e di cui siamo adesso guardiani, vanno rianimate, non imbalsamate. Non basta riattaccare i frammenti, pretendere il massimo da uno strascico stanco di un sistema demolito. Bisogna lasciarsi parlare da ciò che ci circonda, interpretandone le richieste invece di anticiparle con le nostre. O forse rendersi conto che non ha proprio nulla da chiederci, che il mondo non ha domande ma solo risposte. E che di quelle risposte abbiamo irrimediabilmente bisogno, e per questo bisogna prendersi cura di chi le offre come di una risorsa preziosa.
Un terreno riarso va innaffiato perché germogli; un seme va custodito e non solo coltivato, affinché fiorisca. Custodire, quindi, si oppone al dominare. Non è manipolare il mondo perché dica ciò che vogliamo sentirgli dire; piuttosto, ascoltarlo per valorizzarlo e cercare - nei limiti della nostra piccolezza al suo cospetto - di comprenderne il senso intrinseco. Illuminarlo, non abbagliarlo.
Del resto, nessun tiranno fa una bella fine. Storicamente, ad ogni tiranno corrisponde un tirannicidio. Ad ogni usurpazione corrisponde una rivolta, e ogni male causato è male che torna indietro.
Così, far del male agli spazi che occupiamo - e ci arroghiamo come nostri - significa farne a noi stessi. Danneggiare la salute del pianeta, insomma, ci porta inevitabilmente a danneggiare anche la nostra.
Sarebbe bene tenerlo a mente proprio in questi giorni, in vista del Natale. Proprio nel tempo della retorica della dedizione a ciò che è importante, della cura di chi si ha a cuore. Perché la gratitudine non lascia spazio, nel suo abbraccio, anche alla bellezza che ci circonda, e alla casa che ci accoglie tutti ogni giorno?
No, nessuno vuole ‘cancellare il Natale’ – un timore, pare, piuttosto diffuso quest’anno. Ma non bisogna aver partecipato alla COP26 per dare un contributo. Il passaggio da dominio a riappropriazione avviene nel momento in cui l’elitismo che circoscrive un bene comune a business di un solo padrone - o di una cerchia ristretta - viene soppiantato da una riappropriazione comunitaria. E lascia così il posto a una rivendicazione del singolo e dei singoli di quello spazio demolito e da ricostruire, di quelle macerie da custodire senza usurpare, di quel sano rapporto con ciò che più ci sta - o dovrebbe starci - a cuore.
Ad esempio, viaggiate in aereo? Avete pensato a delle alternative più sostenibili? (No, non è sempre più rapido. I soli tempi di attesa in aeroporto, sommati al tempo del viaggio, portano il totale del tempo speso alla pari di quello di un viaggio in treno.) E, quando andate in cerca di regali, ricordate che l’artigianato locale è un’opzione valida e spesso più originale dei prodotti in vendita su Amazon.
Non cancelliamo il Natale, quindi, ma cerchiamo di fare un regalo al pianeta e, così, anche a noi stessi. Non esiste un piano B: se fallisce il piano A, non seguirà nessun altro regalo. Custodire il mondo che ci ospita è quindi prioritario, perché condizione necessaria per la nostra vita sulla Terra e tutto ciò che ne deriva.
A questo punto, serve che facciamo un passo indietro.
Bisogna fare attenzione a non demonizzare la scienza, la tecnologia, o la civiltà in generale. Abbracciare un’opposizione radicale tra natura e ragione, ritornare al contrasto Rousseauiano tra stato di natura e civiltà corrotta e corrompente, riporta sul tavolo quel dualismo che continua ad affacciarsi alla porta. Dissociare l’animale e il razionale produce una narrazione binaria che, ancora una volta, sfocia nell’alienazione dell’umanità da se stessa. Da un lato, disconoscendo una parte essenziale di sé; dall’altro, riconoscendosi come sua stessa nemica.
Rivendicare, allora, significa anche ricordarsi che le due dimensioni possono convivere, e armonizzarle perché una non soccomba all’altra. Rivendicare la nostra naturalità richiede una collaborazione più che mai stretta con i progressi della tecnica: l’umanità deve impegnarsi ad ascoltare il pianeta, e fare del proprio avanzamento e della propria conoscenza gli strumenti comunicativi per dialogarvi.
Non si tratta di liberare la natura dalla sudditanza alla ragione. Né l’una né l’altra sono dittature da cui liberarsi, e l’esistenza dell’uomo non esclude quella del pianeta; al contrario, sono due dimensioni di una totalità che non può che essere guardata – e così custodita – nella sua interezza. In cui il progresso dell’una è la salvezza dell’altra.
Liberarsi del dualismo, ancora una volta, è ricordarsi che non siamo ospiti né padroni, ma coesistiamo con la natura e insieme ad essa scriviamo la storia. Ma non c’è storia senza ambientazione, e non c’è uomo senza mondo.
E la civiltà deve esserne custode, non tiranna.
In questo numero vi proponiamo l’illustrazione realizzata dalle ragazze di Tarassaco Illustrazioni. Mi ha colpita la delicatezza trasmessa dall’incontro tra i due protagonisti – umanità e pianeta –, i cui colori quasi si fondono in un unico disegno, e in un’unica esistenza.
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