e-man-ci-pa-zió-ne
È una parola che descrive un movimento: liberarsi dal mancipium, parola che indica un rapporto di proprietà, l’avere qualcosa in pugno.
Letteralmente, emancipazione significa uscire da questa condizione di essere in mano altrui come una cosa.
È determinante mettere a fuoco la reificazione, l’essere - stati - ridotti a cosa, perché fa la differenza rispetto a tutte le altre situazioni in cui siamo in mano altrui: la fiducia, le relazioni affettive, l’ascolto. Se è vero che facciamo esperienza di essere presso l’altro, è anche vero che esserlo in maniera libera oppure no è una differenza radicale.
Emancipazione è rompere catene, infrangere un dominio che inizia con il negare ogni forma di autodeterminazione della persona su cui esso è esercitato.
Una cosa è a disposizione: si può fare più o meno fatica ad appropriarsene, ma la resistenza che essa può opporre non è un atto di libertà.
La persona che si emancipa resiste al dominio anzitutto non accettando l’idea di essere una cosa pronta per essere rivendicata da altri, posseduta e dunque dominata.
La differenza tra persona e cosa potrebbe suggerire che l’emancipazione sia una cosa naturale, ed è così. Questo non implica, però, che sia facile o automatica.
Per emanciparsi occorre anzitutto confrontarsi con strutture culturali, sociali, economiche e politiche che si fondano sulla logica del dominio e la riproducono, affermandola in ogni sede e in forme diversificate. Di contro alle diverse forme di dominio, dunque, occorre mobilitare massicce risorse critiche.
Occorre anzitutto disarticolare l’idea che l’atto di appropriazione dell’altro sia legittimo perché ci sono certi altri che sono a disposizione.
E questi certi altri non hanno alcuna possibilità di emanciparsi perché, in verità, non ci sarebbe alcun dominio: hanno tutte le libertà desiderabili.
Se tutti siamo sottoposti a logiche di dominio e facciamo esperienza di situazioni in cui dobbiamo emanciparci, ci sono differenze specifiche che rendono il dominio particolarmente stringente e l’emancipazione più complessa.
È piuttosto semplice rendersene conto, se si pensa alla questione di genere e, più nello specifico, al tipo di dominio a cui sono diffusamente sottoposte le donne.
Ne parliamo oggi, perché se non emancipiamo il lavoro dalla disuguaglianza di genere, non riusciremo ad emancipare noi stessi nel lavoro.
Divisi, frammentati, non abbiamo la forza che ci serve.
È questo che mi ha ricordato Appello, l’illustrazione di Mattia Pedrazzoli, il cui lavoro incrocia a più riprese i temi dei diritti, del dominio, dell’attivismo. Lo ringraziamo per averci concesso di condividere con voi la sua opera.
Sei libera di fare qualsiasi cosa, fino a che non esci dalla mia mano.
Puoi fare del tuo corpo quello che vuoi, purché tu sia pronta a fare quello che ti dico io.
La tua carne è una questione di morale pubblica, di politica e di economia.Va bene il gender pay gap: aumenta la tua produttività, e ne parliamo. Va bene l’ambizione a ottenere ruoli determinanti.
Basta che il tuo corpo sia a mia disposizione.
E va benissimo che la mia mano sul tuo culo in ufficio sia riconosciuta come una molestia. Il mio dominio resta salvo perché è mio diritto esercitarlo e se decido di non farlo è merito mio.Anzi, denuncia pure ogni forma di violenza ma quando lo dico io e nelle forme che ho stabilito io. Tanto sono tempi e forme a misura di domino.
Non è forse questa la sequenza all’opera, per esempio, nel video di Beppe Grillo che ha circolato nei giorni scorsi su ogni piattaforma?
Quando una donna decide di parlare di una violenza subita, soprattutto se il caso ottiene un certo grado di pubblicità, certe reazioni sono fin troppo diffuse:
E che ci facevi lì, di notte, vestita così?
Ma che ci sei andata a fare?
Perché non hai denunciato subito?
Non è che denunci adesso perché qualche aspettativa di ricambio è stata disattesa?
Ogni volta che una frasi come queste vengono pronunciate e diffuse, il dominio si rafforza e si dissemina, si approfondisce in una forma ancora più radicale. Un tentativo di emancipazione, l’inizio di una liberazione viene soppresso. Così viene affermata l’impossibilità di ogni emancipazione.
Cosa sei e cosa ritornerai, anche se nel mezzo ti viene concessa una parentesi di umanità, una parvenza di uguaglianza, un stralcio di diritto.
In uno degli scorsi numeri dedicati alla forza, dicevamo che al dominio si oppone la cooperazione. In questo caso, la cooperazione non è semplice e richiede anzitutto la presa di coscienza che il modo in cui facciamo esperienza del dominio è diverso per ciascuno: questa logica si mantiene e si rafforza proprio perché è tailor made.
Cooperare non significa sostituirsi all’altra persona nella sua esperienza: sarebbe letteralmente impossibile, oltre che ingiusto. Questi tentativi di sostituzione, infatti, alimentano il dominio che si vorrebbe contrastare (o contro cui ci vorrebbe mostrare in contrasto) poiché esso si fonda proprio sulla soppressione della persona come titolare della propria esperienza.
Sei in mano mia, la tua esperienza è mia.
Fare corpo, dunque, accogliendo i corpi. Di tutte, tutti e al di là di ogni rigida distinzione binaria. Fare corpoin maniera differenziata, cioè in modo da mettere in comunicazione tutte le differenti corporeità. Cooperazione è dunque alleanza.
E fuori di questa alleanza, chiunque è esposto al dominio.
La prima cosa che dovremmo riuscire a smantellare è la finta contraddizione tra alleanza sociale contro il dominio e innocenza fino a prova contraria di chiunque venga imputato di un crimine.
Dare credito ad una donna che denuncia uno stupro non significa inchiodare l’imputato alla colpevolezza prima ancora che le indagini e l’eventuale processo abbia inizio.
Significa assicurare la possibilità che anche i procedimenti giudiziari possano svolgersi secondo equità, evitando che la persona che sporge denuncia sia screditata in altra sede che non sia quella deputata al confronto tra le parti.
Innocenze e colpevolezze non si dimostrano sui giornali, sui social, nei video. E questo è a giovamento di chiunque, perché contribuisce alla riproduzione di una società in cui le parole diritto e uguaglianza abbiano un senso.
Scrivo questo numero da uomo, bianco, di 25 anni. Ho il privilegio di collaborare quotidianamente con persone diverse che alimentano scambi e confronti. L’educazione che ho ricevuto dalla mia famiglia mi ha consegnato una coscienza aperta. Posso studiare.
Diversi percorsi favoriscono la formazione di diverse sensibilità.
Non è dunque semplice investire nell’emancipazione, per se e per le altre persone, in forme diverse.
La prima cosa che va compresa a fondo è che l’interdipendenza che ci lega implica che ogni dominio alimenta il dominio, ogni violenza alimenta la violenza.
Neppure al più radicale individualista, dunque, conviene sottovalutare una forma di dominio che non si sperimenta direttamente sulla propria carne. Prima o poi, quel dominio si espanderà.
Per chi, come noi, è interessato ai temi dell’educazione e della formazione, è impossibile non vedere il nesso strutturale che c’è tra questi temi e la logica che abbiamo qui provato a descrivere.
Dicevamo: fare corpo per emanciparsi.
Non possiamo, però, dare per scontato che chiunque senta l’urgente necessità di emanciparsi abbia anche le risorse necessarie per farlo.
Per imparare a liberarsi non basta apprendere questo o quel contenuto, occorre anzitutto sapere leggere il dominio e sentire di contro il bisogno e il desiderio di liberarsene.
Ciascuno di noi, dunque, può impegnarsi, fuori e dentro le istituzioni, a costituire rapporti educativi di libertà, che diano così la possibilità a chiunque di saggiare ciò di cui è deprivato e ciò che va riconquistato: la certezza di avere il diritto a sottrarsi all’appropriazione da parte di altri.
Per questo numero, segnaliamo alcune risorse online interessanti:
Senza Rossetto. Giulia Perona e Giulia Cuter curano un progetto che è storie, volti, esperienze già dal nome. È una newsletter, un libro, un podcast.
Unfilo. Un network di dottorande in filosofia, un progetto giovane che vale la pena seguire e supportare.
Un TED Talk in cui Joy Buolamwini spiega in che modo stiamo programmando il nostro futuro sulla base di bias invasivi, tra cui quelli di genere.
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