Non ci girerò troppo intorno, perché sono quasi sicura che tutti e tutte abbiate sentito qualcosa, anche solo di sfuggita, sull’aggressione avvenuta la scorsa settimana in via della Colonna, di fronte al liceo Michelangiolo di Firenze.
Per chi se lo fosse perso: due ragazzi appartenenti al movimento di estrema destra Azione Studentesca stavano volantinando per Casaggì, un’organizzazione che si autodefinisce “la destra sociale, nazionale e identitaria. Per una militanza al servizio dell’Italia”.
Per un’esperienza più immersiva, inserite qui un brivido di disgusto
Tornando al nostro riassunto, alcuni studenti del liceo Michelangiolo si avvicinano per porgere delle domande ai due fieri nazionalsocialisti. In risposta ricevono calci e spintoni, oltre a venire immediatamente aggrediti da due uomini adulti di età compresa tra i 25 e i 30 anni, che danno il via a ciò che potreste aver già visto in video.
Insomma, gli studenti del liceo prendono calci e pugni per aver posto una domanda, e pare non siano neppure i primi di questa serie. In quelle precedenti, poi, hanno ben noti predecessori.
Mentre si indaga sui responsabili dell’accaduto, la dirigente scolastica di un altro liceo fiorentino, Annalisa Savino, scrive una lettera arrabbiata e potentissima, che vale la pena rileggere insieme:
La lettera, lucida e brillante, condanna la violenza e mette in guardia contro le derive che azioni apparentemente isolate rischiano di prendere. E ricorda che il fascismo – riferimento più che accurato, dal momento che stiamo parlando di un’organizzazione che si richiama esplicitamente al Movimento Sociale Italiano – nasce nel silenzio di reazioni omesse, più che nel rumore delle grandi manifestazioni.
Soprattutto se quelle reazioni sono omesse proprio dalle istituzioni, che contestano come inaccettabile la rabbia di una Preside che cerca di costruire una coscienza collettiva, ma s’intiepidiscono quando si tratta di condannare delle violenze di cui la matrice la conosciamo eccome.
(Nota a margine: il partito al governo quella matrice non solo la conosce, ma spesso la condivide. Così come condivide la sede: provate a cercare su Google l’indirizzo delle sezioni fiorentine di Azione Studentesca e di Fratelli d’Italia.)
Eppure, arrabbiarsi davanti a episodi di questo tipo viene condannato ben più ampiamente degli episodi in sé, perché quella rabbia ti fa passare dalla parte del torto.
Ma le equazioni rabbia-irrazionalità, o rabbia-violenza, o rabbia-torto, sono spesso abusate. Perché? Perché travisano la natura della rabbia in sé. Che poi è quello di cui vorrei parlare oggi.
Parliamo della rabbia, allora.
Stigmatizzata come irrazionale e mai costruttiva, la rabbia è la regina delle emozioni represse. Proprio perché arrabbiarsi equivale a perdere credibilità, si cresce con l’imperativo di disciplinarla all’estremo, fino a perfezionare tecniche per non farla mai uscire.
Un imperativo, quello di reprimere e nascondere, che Gloria ha saputo rappresentare perfettamente con l’illustrazione di questa settimana.
Eppure, questa connotazione negativa è puramente culturale: da un punto di vista neurologico, infatti, la rabbia non è altro che l’emozione primaria – quindi intrinseca alla natura umana – che si scatena come risposta ad un ostacolo che si frappone tra noi e il nostro obiettivo, e che dunque desideriamo rimuovere.
Nell’episodio sulla rabbia del podcast del Post Le Basi, che osserva da vicino proprio le emozioni primarie, la psicoterapeuta Serena Barbieri descrive la rabbia come l’emozione del problem-solving da un lato e della determinazione dall’altro. Infatti, spiega, la rabbia ci permette di focalizzare l’ostacolo che desideriamo rimuovere, e ci spinge a elaborare delle soluzioni per riuscirci. In questo senso, la rabbia è un’emozione razionale e orientata all’azione, quindi costruttiva.
Qui la domanda potrebbe sorgere spontanea: ma allora le aggressioni squadriste della scorsa settimana e non solo, evidentemente orientate a colpire nel segno i propri bersagli, possono essere giustificate come manifestazioni di rabbia?
Ve la metto così.
Immaginate di tenere in mano una freccia. State stringendo uno strumento affilato, graffiante, potenzialmente mortale. Immaginate, con quella freccia, di dover colpire un punto preciso, centrare un oggetto che ostruisce il passaggio.
In questo caso, la vostra freccia avrà una traiettoria precisa da seguire, e dovrà pertanto essere ben direzionata per sortire un effetto. Come ci insegna il buon vecchio Robin Hood, per dare quella direzione servirà un altro strumento fondamentale: l’arco.
Allora impugniamo l’arco, prendiamo bene la mira, scocchiamo la freccia e colpiamo l’ostacolo. Massima attenzione, massima precisione. Nessuna mossa lasciata al caso.
La storia è piena di esempi di rabbia direzionata: tra questa pioggia di frecce si possono trovare anche movimenti di portata epocale, basti pensare alle suffragette, ma anche al più recente Black Lives Matter. Parliamo, in questi casi, di una rabbia che nasce sempre come risposta all’oppressione nelle sue varie manifestazioni, e dunque di una rabbia dinamica, perché spinge a mettersi in gioco, apre dibattiti, ma soprattutto mira a rimuovere ostacoli per ampliare lo spettro di possibilità per tutte e tutti. Una rabbia di questo tipo non cerca di togliere, ma di dare, e ha dunque un fine costruttivo.
In questo senso, se impariamo a conoscerla e ascoltarla, una rabbia ben direzionata può essere uno strumento rivoluzionario di emancipazione, acquisendo un inestimabile valore politico.
Pensiamo, adesso, di trovarci in mano quella stessa freccia. Stavolta, però, la lanciamo a mano senza un bersaglio preciso, per sfogare qualche tipo di frustrazione che tutti e tutte proviamo di tanto in tanto. Ma uno strumento così affilato, graffiante, potenzialmente mortale, se usato alla cieca, finirà sempre per far male a qualcuno.
Bisogna allora distinguere la rabbia dall’odio, cioè saper discriminare tra un sentimento propulsivo e uno ristagnante, tra un’istanza di cambiamento e una difesa ostinata dello status quo, tra una ricerca di una soluzione per tutti e tutte e la lotta tra due schieramenti immutabili, che può solo concludersi con l’annientamento di uno dei due. Che poi, come nota Franco Palazzi in questa bella intervista, è proprio la radice del fascismo.
Possiamo dire, quindi, che l’inibizione della rabbia nasce proprio da un fraintendimento che la scambia per odio.
E allora anche chi alla rabbia dà una direzione precisa finisce sulla stessa isola del torto di chi odia, e così della vernice sui quadri (o di fioriere rovesciate) e di un attacco squadrista si nota solo che siano entrambi atti “violenti” – come se la violenza fosse la stessa, poi – senza indagarne le motivazioni, la direzione.
Così agli oppressi vengono richiesti decoro e buona educazione per non “finire per essere come loro”. Quando “come loro” non hanno niente, perché la rabbia degli oppressi è quasi sempre volta ad eliminare ciò che li opprime.
Allora chi ha il diritto di arrabbiarsi (e manifestare la propria rabbia)?
In breve, chi direziona l’arco prima di scagliare la freccia. Coloro la cui rabbia, in altri termini, ha una portata universalistica e non conservatrice, nega l’ostacolo per aprire una strada e non per chiuderla, espande e non restringe le possibilità.
La cui freccia rompe le catene e viene usata come ponte, invece di colpire per imprigionare.
I consigli di questa settimana:
Mentre raccoglievo il materiale che ho usato per scrivere questo numero, mi sono imbattuta in un libro, già citato nel testo, che è subito entrato nella mia lista di prossime letture: si tratta de La politica della rabbia. Per una balistica filosofica, di Franco Palazzi. L’autore parla dell’immenso potenziale di questa emozione facendone una questione, appunto, di balistica, che studia proprio il moto di un proiettile una volta lanciato. Insomma, la rabbia può avere un prezioso potere politico, se sappiamo prendere bene la mira. Se siete curios*, ne trovate un estratto pubblicato come articolo su L’Indiscreto.
La filosofa Amia Srinivasan, docente di teoria sociale e politica presso l’università di Oxford, nel 2018 ha pubblicato un articolo dal titolo The Aptness of Anger (L’Adeguatezza della Rabbia), in cui spiega perché questa emozione può essere adeguata, malgrado il tentativo di reprimerla in quanto “controproducente”.
Un video diventato virale, che avrete sicuramente già visto, ma che fornisce un buon esempio di rabbia direzionata per rimuovere un ostacolo oppressivo.
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