Nel primo numero di questa newsletter ci siamo occupati della bolla in cui l’istruzione e la formazione sono state risospinte dalla pandemia. L’isolamento - che a volte sembra l’unica forma possibile di difesa - non ha riguardato soltanto scuole e università, ha raggiunto sfere diverse della nostra vita: questo è certo.
Ciò che è meno certo è se questi mesi critici e dolorosi stiano favorendo un cambiamento oppure no. O meglio, se possiamo constatare con facilità che dei cambiamenti sono già in atto in molti aspetti delle nostre esistenze, abbiamo meno certezze circa la bontà di questi cambiamenti. Iniziamo con una domanda che può sembrare scontata, se non capziosa.
La pandemia di Covid-19 ha davvero prodotto una massiccia presa di coscienza del vicolo cieco a cui l’umanità sembra essere giunta?
Per un momento, durante i primi mesi di lockdown, mentre dai nostri balconi scendevano striscioni di speranza e di incoraggiamento, ci è parso di essere sul punto di un cambiamento radicale: lo stop del sistema economico mondiale si mostrava come un’ipotesi plausibile, che avrebbe consentito di ripensare profondamente i processi di produzione e circolazione.
Quando la pressione sull’economia mondiale supera una soglia massima - difficile da individuare -, si fanno avanti da un lato l’ombra della crisi definitiva del nostro sistema e dall’altro una universale comprensione della necessità di invertire la rotta. Dopo la crisi finanziaria del 2007, per l’incapacità manifesta della politica di intervenire per fermare il dilagare di disuguaglianza e povertà, un sentimento di risveglio generale si strinse attorno alle persone che animavano il movimento Occupy Wall Street. In tutto il mondo, il 99% levava la propria voce contro le ingiustizie perpetrate dall’1%: i molti contro i pochi super-ricchi.
Siamo di nuovo lì?
Nel suo recente libro How to Blow Up a Pipeline, Andreas Malm parla di “vittime politiche della pandemia” per indicare le iniziative e i movimenti politici che si stavano affermando su più livelli, prima che il Covid-19 li spazzasse dalla scena globale: tra i casi più evidenti, i vari movimenti legati alla causa dei cambiamenti climatici.
La faccenda è più grave di quanto possa sembrare, non perché abbiamo perso di vista delle priorità, perché a livello globale queste stanno conoscendo una nuova traduzione: basti pensare all’impegno dell’Unione Europea sulla transizione ecologica o sostenibile, su cui i diversi governi nazionali mostrano più o meno prontezza. Certo dovremo sorvegliare su questi processi di traduzione per assicurarci che non si sopiscano i furori iniziali.
Quello che è più grave e pericoloso è perdere la voce. Molti hanno dovuto ridursi al silenzio, in questi mesi, smettere di esercitare le proprie facoltà in senso ampio. E viviamo attraverso le cose che facciamo, è nella pratica che trovano corpo le nostre identità.
Nelle cose fatte si vedono i nomi di chi le fa. Quando ascoltiamo le preview di Accademico, il nostro podcast, ritroviamo Ilaria e Daniele (che molti di noi hanno ancora non hanno conosciuto se non telematicamente) e rintracciamo gli scambi che animano il nostro gruppo, il materiale condiviso, le ricerche comuni.
Per noi è stato determinante ritrovarci insieme, studentesse e lavoratrici, giovani ricercatori e studenti, lavoratori. È tuttora vitale riuscire a fare quello che vogliamo: analizzare, raccontare, dialogare. Ogni volta che sentiamo dire che “ci sono cose più importanti”, cerchiamo i dati per mostrare che quando si parla di istruzione e università, si parla di futuro - che è una cosa piuttosto importante. Proprio in questi mesi abbiamo provato a rilanciare, intensificando le nostre attività, gli incontri telematici tra noi, le risorse gratuite che mettiamo a disposizione.
Abbiamo vissuto una brusca e prolungata interruzione delle nostre attività, soprattutto quelle - creative o ricreative - in cui trova voce ciò che vogliamo essere. Il tempo si comprime in un’attesa che oscilla tra la speranza e il singhiozzo. Ci siamo abituati a classificare le attività secondo priorità di varia natura, salvo poi essere costretti a renderci conto che dall’altro capo di un’attività ‘solamente ricreativa’ c’è una persona che lavora e vive di quel lavoro, non solo dal punto di vista economico o di sopravvivenza materiale.
La striscia di Giulio Satriani, giovane artista e studente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, racconta proprio la drammaticità di questo silenzio e sta ad avvertirci che non sempre esso è occasione di concentrazione delle energie, meditazione e raccoglimento.
A volte, il silenzio viene interrotto solo per un arrivederci a tutti.
Può non essere così, ma affinché nuove voci possano esplodere occorre iniziare ad ascoltarne i primi vagiti e supportarne la fuoriuscita. Ad un bambino che pronuncia le prime parole non si rimprovera di sbagliare il tono ma si risponde con dei rinforzi che possano favorire una migliore articolazione delle parole. Allo stesso modo, mentre cerchiamo di riconquistare degli spazi di manovra dovremmo ricordarci che ciascuno di noi ha diritto di tornare ad utilizzare la propria voce, abbandonando atteggiamenti da censori e piuttosto fare il possibile per sostenerci a vicenda.
Il fine settimana si avvicina e una buona lettura può fare una buona domenica. Per questo numero, la nostra Serena Daoli consiglia Il mondo alla fine del mondo.
Il mondo alla fine del mondo di Luis Sépulveda racconta di un viaggio,
ma al contempo di casa e della riscoperta delle proprie origini.
Tutto nella splendida cornice della Patagonia cilena.
Dal nostro blog, segnaliamo un articolo di Alberto De Bin che, sulla sponda di uno scivolone di alcuni quotidiani italiani, approfondisce l’importante tema degli ITS.
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