Premessa | Questa sarà una newsletter più lunga del solito, quindi vi invitiamo a sedervi, versarvi qualcosa da bere e continuare la lettura. Faremo due passaggi: 1. che significa dire la verità? 2. che c’entra con la cancel culture? Iniziamo.
1. Che significa dire la verità?
Nomina sunt consequentia rerum
Le parole conseguono alle cose
Questa frase indica il principio per cui le parole che utilizziamo dovrebbero seguire le cose che attraverso esse indichiamo: è la natura stessa dei fenomeni di cui parliamo a portare con sé le parole con cui parlarne.
È una questione di aderenza alla realtà, di onestà - se si vuole - affermata in diversi luoghi cardinali della nostra cultura: se ne trova traccia, per esempio, nel Vangelo secondo Matteo: sia il vostro parlare sì, sì; no no (5, 17-37). Ciò che non viene dalle cose stesse, sarebbe dunque vuota retorica, quando non aperta menzogna: del resto, se una cosa è palesemente aderente alla realtà, non dovrebbe esserci bisogno di persuadere gli astanti. La verità, se la parola segue la cosa per cui sta, dovrebbe imporsi da sé.
Piccola pausa.
Prendiamo lo smartphone, apriamo un qualsiasi social network: funziona ancora meglio con twitter. Se non ne abbiamo uno, digitiamo su Google due o tre parole su un tema di attualità.
Sia che abbiamo aperto un social sia che stiamo consultando una serie di risultati sfornati da un motore di ricerca, ci troviamo dinnanzi contenuti che, nel migliore dei casi, sono “contrastanti”. Più probabilmente, con 5 minuti di lettura veloce, vedremo affermato tutto e il contrario di tutto.
Senza scomodare le fake news, possiamo riconoscere che la quantità di informazioni a cui abbiamo accesso nutre in noi un’esigenza di chiarezza: cerchiamo contributi limpidi, di cui possiamo fidarci. È legittimo che, anche mantenendo una postura critica verso le informazioni, desideriamo individuare una voce autorevole, cioè le cui parole siano aderenti alla realtà.
Che cosa sia la realtà, cioè che cosa sia la verità è una domanda tutt’altro che risolvibile. È talmente complessa che forse non si tratta neppure di una domanda: è già una ricerca, un’esperienza.
Ci sono voci che, quando esprimono un’opinione, fanno mostra di prove, dati, evidenze che sostengano le loro affermazioni: riferiscono dei fatti, a cui seguono strettamente le parole.
Va pure detto che le parole che utilizziamo contribuiscono a stabilire la realtà: soprattutto in situazioni complesse, decidere di utilizzare una parola invece che un’altra significa dare una certa forma alla realtà oppure no. Significa veicolare una certa rappresentazione della cosa di cui trattiamo, che si giustifica anche per il tipo di reazione che suscita in chi ha a che fare con questa rappresentazione.
È sempre più evidente che la verità e il senso sono grandezze sociali, vengono cioè definite e condivise, accettate o rifiutate all’interno di un ampio e complesso sistema di interazioni. Sono in gioco almeno due tipi di relazioni: 1. quelle tra le soggettività che si esprimono; 2. quelle di ciascuna di esse con le cose. La triangolazione tra queste relazioni, in qualche modo, restituisce la realtà. Sempre in forma plastica, ovviamente: ogni descrizione di come stanno le cose, per quanto possa sembrare definitiva, è strutturalmente aperta alla negoziazione.
Dire la verità, dunque, significa anzitutto non sottrarsi, quando si parla, al confronto con le altre soggettività ed essere disponibili ad esibire le prove che sostengono quanto diciamo.
Evidentemente siamo nell’ambito del discorso argomentativo, della presa pubblica di parola. Se diciamo che ci piacciono più i gatti dei cani, non dovremmo essere compulsati a fornire delle prove per dimostrare che diciamo la verità. E vale per tutte le preferenze che non hanno un’immediata ripercussione sulle altre persone.
2. Che c’entra con la cancel culture?
Ci sono parole che suscitano reazioni immediate e - cosa più importante- polarizzate: accettazione o rifiuto, tertium non datur.
“Cancel culture” fa parte di questo gruppo.
Questo fenomeno, di cui abbiamo anche parlato nell’ultima puntata di Accademico, anche noto come “call out culture”, ha conosciuto una crescita importante all’indomani del movimento MeToo e delle diverse declinazioni nazionali di quest’ultimo: dal Balance ton porc francese alla versione greca, più recente.
Si tratta di un fenomeno controverso, che anima da almeno 3 anni un dibattito molto polarizzato.
Al di là delle simpatie o delle antipatie personali, dei pruriti e dei gusti di ciascuno, riteniamo che qui vi sia una esigenza profonda, da non trascurare.
Ricorriamo ancora ad uno schema, essendo avvertiti del rischio di semplificare, per capire di cosa si tratta.
L’esempio più comune riguarda le molestie sessuali e, soprattutto, uomini in posizioni apicali che praticano violenza contro donne rispetto alle quali fanno valere proprio una qualche superiorità lavorativa, retributiva, culturale. In una parola sola: sociale.
Questa superiorità nutre la convinzione che non sarà sporta denuncia - è ormai evidente che il passo dalla violenza subita alla denuncia o alla richiesta di aiuto non è semplice.
Inoltre, è proprio in forza di tale superiorità che non è immediato riconoscere i casi di violenza: è diffusa l’idea che il consenso sia implicito, che un certo modo di abbigliarsi implichi una certa disponibilità, che forme di resistenza siano, in verità, solo meccanismi per farsi desiderare. La lista, squallida, potrebbe continuare molto a lungo.
Dicevamo che si tratta di una superiorità sociale: che si tratti di un diffalco remunerativo o di una differenza alimentata da certe formazioni culturali, tra chi pratica violenza e chi la subisce c’è sempre una relazione di potere.
Si inserisce qui la cancellazione o il richiamo. Un movimento dal basso, anche grazie all’utilizzo massiccio dei social media, decide di intervenire per ripristinare rapporti egualitari.
Non si tratta soltanto di rimuovere la persona dalla posizione apicale o, in generale, di produrne il licenziamento o le dimissioni. Si tratta piuttosto di interpellare una persona affinché possa dare conto di ciò di cui è accusato dinnanzi alla società. È un processo di costituzione di una parte civile più ampia che interviene per evitare che il diffalco di potere possa riprodursi anche in sede giudiziaria.
La cancellazione o il richiamo afferma, in fondo, che tutto ciò che è sociale sia negoziabile. Quindi deve essere una apertura alla negoziazione.
Se si indirizza a qualcuno un richiamo, perché si ritiene che questa persona abbia commesso un atto criminoso o eticamente riprovevole, allora bisogna essere disponibili a ricevere una risposta.
Questo non significa che “basta scusarsi” ma contemplare la possibilità che la risposta metta in discussione il richiamo e, dunque, che il mittente della call-out debba rimodulare la propria richiesta.
La complessità di questo fenomeno porta con sé una duplice sfida:
ricordarci che non possiamo pretendere che un fenomeno sociale sia perfettamente definito e regolato, funzionante e senza un margine di rischio, se non ci lasciamo coinvolgere da esso e ci voltiamo dall’altra parte.
I fenomeni sociali richiedono organizzazione.elaborare una strategia collettiva che consenta a fenomeni come questi di aprire uno spazio che non sia immediatamente sovrapposto al sistema giudiziario, così che non si possa più squalificare una richiesta di verità come una esecuzione sommaria.
Ignorare questi fenomeni e fingere che non riguardino tutti noi, significa dimenticare che, a volte, nel corpo a corpo con ciò a cui ci si oppone, si rischia di mutuare da quest’ultimo i tratti peggiori.
La società, anche nelle sue forme meno concilianti, richiede il lavoro di tutti affinché possa assumere sembianze sempre più egualitarie.
Il consiglio di lettura di questa settimana è del nostro Alvise Gasparini ed è La pedagogia degli oppressi, di Paulo Freire.
Il testo di Freire riesce a unire una critica all'autoritarismo in educazione con uno spessore filosofico di stampo hegeliano. Questo binomio rende La Pedagogia degli oppressi un'opera democratica e inclusiva fondamentale per ogni pedagogista.
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