Chiedi perdono in ginocchio sui ceci.
Adesso basta, dietro la lavagna e faccia al muro.
Evviva l’umiliazione, che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità!
Durante l’evento Italia, direzione nord del 21 novembre, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha infatti commentato degli episodi di bullismo e violenza nelle scuole, sostenendo il valore formativo dell’umiliazione. La riflessione si è articolata in questi termini:
«Ma se ci si limita a sospendere per un anno, il rischio è che quel ragazzo vada poi a fare fuori dalla scuola altri atti di teppismo, o magari addirittura si dia allo spaccio o magari si dia alla microcriminalità. Quel ragazzo deve essere seguito, quel ragazzo deve imparare che cosa significa la responsabilità, il senso del dovere. Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione».
Proviamo a decostruire queste affermazioni.
Valditara fa espliciti riferimenti alla responsabilità nei confronti di una comunità, in quello che nelle intenzioni appare proprio come un richiamo alla collettività. Nelle sue parole possiamo individuare, spogliandoci di ogni malizia, un grido contro l’individualismo dilagante, che spesso porta a percepire il proprio percorso – scolastico, lavorativo, personale – come una corsa da vincere a discapito degli altri.
“Vergogna!”, sembra dire con le sue parole.
“Vergogna!”, ma capisci quanto stai mancando di rispetto?
“Vergogna!”, ma non vedete che non siete da soli in questo mondo?
“Vergogna!” è un’esortazione che, in una sola parola, fa tremare: non serve aggiungere altro perché si innalzi il muro di valori e punti fermi che guidano la nostra condotta, e uno alla volta ci confrontino finché, alla resa dei conti, non ci rendiamo conto da soli della nostra stessa defezione.
La vergogna è ciò che si prova quando si sa di aver fallito uno standard di comportamento condiviso. “Vergogna!” è l’esortazione a fare i conti con se stessi e abbassare gli occhi davanti a quel fallimento.
La civiltà della vergogna, del resto, è la definizione – usata principalmente in riferimento alla società omerica – che dipinge un contesto in cui le azioni e le loro conseguenze acquisiscono valore – e, in certo senso, effettività – solo se socialmente legittimate, tanto nel caso di approvazione quanto di condanna. Gli onori non sono onori senza un premio che li riconosca; le nefandezze sono trascurabili, se trascurate dalla comunità di appartenenza.
Una volta compiuta l’interiorizzazione collettiva di quel quadro morale condiviso, l’epoca cristiana segna il passaggio alla civiltà della colpa, in cui il confronto con le proprie azioni avviene sul piano della coscienza individuale, a prescindere dal riconoscimento sociale.
La vergogna e la colpa affondano le radici, tuttavia, nel medesimo presupposto: l’universalità della morale di riferimento.
“Vergogna!” funziona solo se chi riceve l’esortazione ritiene di aver davvero disatteso un tacito impegno, di aver davvero infranto una regola comune. Il senso di colpa, allo stesso modo, emerge solo in chi sa, in cuor suo, di essere colpevole nei confronti di qualcuno o qualcosa.
Le affermazioni di Valditara, allora, diventano comprensibili nella misura in cui vengano lette come un richiamo ad una collettività perduta, una rievocazione della civiltà della vergogna e della morale condivisa che ne è il presupposto.
Cosa non funziona, allora?
Non funziona il presupposto. Perché oggi progresso vuol dire in primis rifiuto dell’appiattimento di una pluralità di valori, visioni e identità in categorie conformiste e conformanti. In un mondo in cui la complessità viene rivendicata come un diritto imprescindibile, imporre degli standard come fossero universali significa forzare semplificazioni che annichiliscono l’unicità di ciascun individuo.
In un contesto di questo tipo, gridare “Vergogna!” può produrre soltanto due effetti.
Da un lato, restare inascoltati da chiunque abbia sufficiente familiarità con le battaglie che si oppongono all’omologazione.
Dall’altro, attecchire in maniera malsana su chi non ha avuto il privilegio o la volontà di emanciparsi dalla costrizione di certe aspettative. Magari perché cresciuti in un contesto ancora moralmente univoco, oppure perché privati dell’opportunità di entrare in contatto con la diversità, e dunque più vulnerabili.
E allora quell’esortazione alla vergogna si trasforma in colpa, quell’umiliazione in un fardello, quelle aspettative in una questione di vita o di morte.
Studenti, insegnanti, genitori, Ministro stesso: non è colpa vostra.
L’intenzione è buona, ma bisogna provare a immaginare insieme un altro modo per invocare la collettività senza penalizzare chi non riesce a trovarvi un posto per sé.
Cerchiamo, tutti insieme, un modo per non ridurre la pluralità ad un’unica voce, e al tempo stesso per inserire la coscienza di ciascuno in un contesto che la aiuti a fiorire e a migliorarsi senza imporre standard che non le appartengono.
Essere giudici di noi stessi non vuol dire necessariamente sopraffare chi ci sta intorno, agire a loro discapito. Al contrario: far parte di una collettività vuol dire trovare un posto per le differenze e permettere che si arricchiscano reciprocamente, richiamando chi manca di rispetto non attraverso la vergogna, ma mediante l’esempio concreto di un modo diverso di agire.
Far parte di una collettività significa fare qualcosa per gli altri, soprattutto quando questi non riescono a fare lo stesso per noi: cercare di capire i gesti inconsueti, lavorare proprio insieme a chi tende a rifiutare quell’aiuto.
In una lettera aperta al ministro Valditara pubblicata su La Stampa, l’insegnante e scrittrice Viola Ardone sottolinea che l’abbandono scolastico, così come la cattiva condotta, è un problema sociale e politico. Non una ribellione individuale, non una questione di merito.
Rieducare mediante la collettività, e dunque rendere la scuola una comunità educante, permette di sviluppare davvero la responsabilità – che è un valore sociale – e non il mero senso del dovere, che si riduce a una faccenda individuale.
Rieducare significa in primis favorire una piena integrazione nella comunità di riferimento, non allontanare da essa. E se pensate che i tempi della punizione con la faccia a muro dietro la lavagna siano finiti, siete mai stati buttati fuori dalla classe quando eravate a scuola?
L’educazione alle conseguenze delle proprie azioni non può avvenire tramite l’umiliazione, che produce soltanto isolamento sociale. Serve, piuttosto, un accompagnamento fatto di comprensione, educazione emotiva e buon esempio, che trasmetta non rabbia ma passione.
Ministro Valditara, e tutti gli altri figli e figlie di un mondo di colpe e vergogna: assolti, assolte.
Nessuno vi griderà “Vergogna!”, nessuno vi chiederà di essere quelli che non siete.
Pensate di riuscire a fare lo stesso?
L’illustrazione di oggi è stata realizzata da Francesca, che la racconta così:
L’istruzione non deve essere una lotta, un percorso ad ostacoli, una battaglia in mare aperto contro mostri come l’umiliazione, in cui si viene lasciati soli. E allora c’è questa bambina che è sola nel mare, che lotta contro un mostro non ben definito, mentre l’istruzione dovrebbe essere un bel “viaggio”, arricchente e stimolante.
I consigli di questa settimana:
Se vi interessa approfondire la differenza tra la civiltà della colpa e la civiltà della vergogna, questo paper la presenta in maniera semplice ma accurata, andando a fondo pur restando accessibile.
Il sociologo canadese Erving Goffman introduce il concetto di “faccia” per indicare l’identità che assumiamo quando ci relazioniamo con gli altri membri della nostra comunità, le interazioni con i quali sono guidate dal tentativo di non “perdere la faccia”, o di “salvare la faccia”. In questo senso, Goffman dipinge la socialità come una continua performance che punta, in primis, al riconoscimento. Non somiglia forse un po’ alla civiltà della vergogna?
I ragazzi di Nisida è un podcast prodotto dal Sole 24 Ore, a cura di Donata Marrazzo. Si parla dei ragazzi che popolano l’istituto penale minorile di Nisida, in Campania, e delle loro storie che crescono all’interno di una comunità.
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