Studere, studere, post mortem quid valere?
Il vecchio adagio latino, tradotto, recita così: studiare, studiare, dopo la morte a che cosa serve?
Generazioni di liceali hanno ricevuto infinite lavate di testa sul valore dello studio ma la domanda fondamentale rimane.
Lo studio è importante, certo. Ma a che cosa serve?
Per provare a rispondere, occorre ricalibrare la domanda tagliando post mortem. Proviamo a mettere a fuoco la vita mentre la viviamo. Sul dopo, sospendiamo il giudizio.
A cosa serve lo studio?
Una prima risposta, secca, è questa: a niente. Studiare non serve direttamente a qualcosa, non produce una utilità immediata e questo è il suo specifico valore. Lo studio consente di uscire dalla logica dell’utile che martella ciascuno di noi, da molte fonti, tutto il giorno.
Non è solo una risposta provocatoria.
L’utile, infatti, non è un concetto da cui riusciamo a liberarci così facilmente. Ne stiamo avendo una esperienza diretta nel lungo anno che stiamo vivendo, in cui anche i lavori più utili hanno subito una battuta d’arresto.
Abbiamo bisogno di un riscontro per le nostre attività, di risultati. Abbiamo bisogno di orientare ad uno scopo quello che facciamo e, più a fondo, di scegliere questo scopo - o almeno di partecipare alla sua definizione.
Si tratta di espandere la nostra concezione di utile rispetto a quella, più ristretta, ritagliata su certi tipi di attività.
Non c’è un solo tipo di utilità. Se accettiamo questo punto, ridiamo anche allo studio il suo spazio.
Così come le attività utili non sono tutte uguali, anche lo studio non è sempre uguale. Il processo di produzione industriale ci fornisce le merci che consumiamo - e sono tante. È indubbiamente una cosa utile.
Un paio di scarpe e un vaccino sono merci. Hanno la stessa utilità?
Un laureato in nanotecnologie può lavorare per lo sviluppo di nuove componenti che migliorano la connettività dei nostri dispositivi o consentono alle batterie dei nostri laptop di usurarsi meno velocemente.
Sono cose utili, no?
Hanno la stessa utilità di un lavoro di ricerca in filosofia sul rapporto tra principi logici e regole di derivazione?
La risposta è semplice: no.
Per differenziare queste due utilità abbiamo due strade: una quantitativa e una qualitativa.
La prima ci porta a pensare che due attività siano diverse in quanto più o meno utili. Potremmo spingerci oltre e domandarci se sia possibile distinguere le attività in base al maggiore o minore impatto che esse hanno sulla società nel suo complesso.
Questo tipo di domande diventano legittime, però, se ce ne poniamo una fondamentale: di che tipo di utilità stiamo parlando? Misuriamo pure l’impatto delle diverse attività ma di che tipo di impatto stiamo cercando una misura.
Stringiamo ancora il nostro focus alle attività che hanno a che fare con l’istruzione, l’educazione, la ricerca. Torniamo così alla domanda da cui abbiamo preso avvio: a che cosa serve studiare?
A questo punto, ci rivolgiamo allo studio e alle attività di educazione e formazione nella loro generalità: non ci interessa (non ora, almeno) che si tratti di studiare greco antico o calcolo differenziale, modelli finanziari oppure letteratura della tarda età imperiale. Ci interessa che si tratti di studio, di educazione, non tanto una classifica delle discipline più utili - di cui possiamo tranquillamente fare a meno.
Iniziamo a rispondere con una illustrazione, della giovane artista Lunastorta, che ringraziamo per aver voluto condividere con noi un pezzo della sua arte.
When I will grow up I will be a storm.
A questo serve lo studio e l’educazione, ad un livello fondamentale: a crescere come tempeste, ad allevare tempeste.
Cosa fa una tempesta? Si inserisce nell’ordine degli eventi, prende il suo spazio e in esso si libera, trova dispiegamento. Fa rumore, chiede attenzione. Piove e da vita alla terra che, senza pioggia, riarsa, non dà frutto e si secca, si spacca.
Mantenendoci in questa metafora (discutibile, se si vuole), possiamo dire che educare serve ad offrire alla potenziale tempesta le forze di cui ha bisogno per formarsi. E sono forze molteplici, come le fonti della formazione di una persona, tutte utili allo scopo. Di più: sono sempre forze opposte.
Nell’educazione e nello studio, l’opposizione è strutturale: perché la formazione utile è quella critica, che consente alla persona di situarsi liberamente rispetto a ciò che studia, alla realtà in cui vive. Opposizione è dunque libertà di manovra, margine di azione: libertà. Nessuno obbliga a tenere presso di sé questo o quel contenuto, ad approfondire questa o quella disciplina.
Studiare significa anche scegliere cosa studiare, decidere ciò a cui dedicarsi, di cosa nutrirsi. Può significare opporsi ad una certa visione delle cose che venga proposta come indiscutibile.
Opposizione non è necessariamente scontro. È anzitutto stare di fronte a qualcosa, è stare nella relazione con qualcosa che è autonomo rispetto a noi e, proprio per questo, chiede autonomia. Nel migliore dei casi la sollecita.
In questo senso c’è dunque opposizione tra chi studia e chi insegna e, più in generale, tra chi educa e chi è ricettore di una educazione. I due poli di questa relazione sono reciprocamente autonomi e liberi ed è nella opposizione che si definiscono: chi educa dovrebbe calibrare la propria azione in virtù di chi gli sta di fronte; chi studia dovrebbe essere in grado di rapportarsi autonomamente a chi si assume il compito difficile di educare.
Tanto chi educa quanto chi studia sono a loro volta liberi rispetto al contesto istituzionale in cui tale relazione solitamente si sviluppa, sono liberi rispetto a qualsiasi soggetto che, da fuori, pretenda di plasmare questa relazione. Eppure è una libertà spesso minacciata, come ci ha ricordato la nostra Serena Daoli nel suo ultimo articolo.
Va pure detto che le tempeste fanno rumore, non sono fenomeni confortanti: si appropriano di spazio e tempo, si impongono alla nostra attenzione. Possono essere un problema, se mettono in discussione certezze e assunti fondamentali della cultura e della vita. Troppe volte, si prova a smorzarle. Troppo a lungo, lo si è fatto con il fuoco: una di queste storie è raccontata da Daniele e Ilaria in Accademico, il nostro podcast. La tempesta in questione risponde ad un nome che è diventato un simbolo: Giordano Bruno.
A partire da una domanda piuttosto lineare, abbiamo sviluppato una risposta strana, che potremmo definire dialettica. Al centro della risposta c’è la relazione di educazione e di studio - e non c’è né l’una né l’altro fuori da questa relazione.
E pure questa risposta, a rigore, deve poter essere messa alla prova di una tempesta.
Il fine settimana si avvicina e una buona lettura può fare una buona domenica.
Per questo numero, la nostra Anna Caruso ci consiglia L’arte di correre di Murakami, per il prezioso inno alla tenacia e alla costanza.
Dal nostro blog segnaliamo un articolo dedicato all’importanza della Rete Alumni per un’università aperta e dialogante, che il nostro Francesco Pezzarossi ha scritto a partire dai che abbiamo recentemente pubblicato.
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