Che sempre l’ignoranza fa paura, ed il silenzio è uguale a morte!
Francesco Guccini, Canzone per Silvia
Perché l’ignoranza ci fa paura? Cosa, dell’ignoranza, ci fa paura? Che significa ignorare?
Inizio questo numero con la ben nota distinzione tra almeno due sensi della parola “ignorare”. In entrambi i casi, ignorare è non sapere. La domanda rilevante, in questo caso, è un’altra: perché? Perché non so?
Da un lato, c’è l’ignoranza di chi si rifiuta di sapere: non so perché non voglio. Dall’altro, l’ignoranza di chi non sa ancora: non so perché non l’ho ancora scoperto. Teniamo questo secondo significato da parte; ci servirà tra poco.
Adesso guardiamo il primo. Rifiutarsi di sapere può avere diverse cause: la buona vecchia pigrizia è sicuramente una di queste, ma non è certo la fine della storia. Eliminando fattori personali, diverse altre opzioni restano aperte. Sapere è costoso: implica dispendio di tempo ed energie, richiede di attivare il proprio senso critico, di passare al vaglio la veridicità delle informazioni da cui siamo investiti. Costoso, dunque.
Pericoloso, poi: sapere è emancipazione, è essere una voce fuori dal coro, è una domanda che attacca le fondamenta di ogni narrativa. Che scava in fondo e mette in dubbio quelle assunzioni implicite che si danno per scontate, che chi riproduce quella narrativa chiede di dare per scontate. È rispondere no a questa richiesta, un no secco che non sempre sta bene a chi lo chiede. Anzi, quasi mai.
So che sapete dove sto andando a parare, e non è facile andarci. Vi chiedo dunque di seguirmi in questi passi piccoli, minuscoli, per affacciarci con discrezione su qualcosa di troppo grande per restare lucidi, per trovare un senso, per qualsiasi tentativo di analisi razionale. Vi chiedo di assolvermi per eventuali errori, e proviamo ad avvicinarci in punta di piedi.
Pericoloso, dicevo. Soprattutto per chi, fino al giorno prima, si univa al coro che domandava di non farsi domande. Per chi lo fa ancora, ma rischia di iniziare a dubitare a sua volta. E come si fa a tenersi strette queste persone?
Con il silenzio.
Tacete, non sapete di cosa state parlando. Non ascoltate, restate nello spazio ovattato in cui nulla sentite se non l’eco della vostra stessa voce. Sospettate, di chi dice il contrario. E continuate a farlo, non date alcuna possibilità di dimostrare il contrario di ciò che credete. Abbandonatevi a questo scetticismo permanente, che solleva domande di cui rifiuta le risposte.
E allora oscuriamo i media, incateniamo le voci indipendenti, distruggiamo la cultura. Perché ogni mezzo di informazione è una minaccia al pensiero unico (quello vero e terribile, non quello degli slogan scadenti che ben conosciamo), perché l’informazione dà forma all’opinione. Perché se si accende una scintilla può scoppiare un incendio, e allora meglio impedirne ogni principio, coprirne ogni traccia. Meglio tenere all’oscuro, per non far entrare la luce.
Penserete, allora, che il rimedio sia non oscurare. Lo penso anch’io. Eppure, di recente di contraddizioni ne ho incontrate parecchie.
Ad esempio, perché mai oscuriamo per combattere un’oscurazione?
Che messaggio manda la richiesta di sospendere un corso su un gigante della letteratura solo perché russo, quella di abbatterne la statua, o addirittura il rifiuto di ammettere atleti russi alle Paralimpiadi? D’altro canto, cosa ci dice la ritirata spontanea di personaggi del mondo della cultura in segno di denuncia, della guerra o delle pressioni per prenderne le distanze ‘abbastanza’ esplicitamente?
Vorrei separare le due domande, perché si tratta di due questioni differenti.
Da un lato, il repulisti unilaterale di ogni traccia di cultura russa è contraddittorio: condanna Putin con i suoi stessi mezzi, opprime per sanzionare l’oppressione, punisce la mancata libertà di espressione con il silenzio. E, nel demarcare sempre più distintamente il confine tra noi e loro, tra i buoni e i cattivi, finisce per tracciare una linea di fuoco che non solo produce ulteriore emarginazione, ma si adegua a quella narrativa secondo cui l’Occidente marginalizza la Russia, si atteggia a rivale, impone la propria cultura.
E alla fine, nel condannare il gioco del nemico, si ritrova a parteciparvi.
Dall’altro lato, la decisione spontanea di fare un passo indietro è una questione più delicata. Innegabilmente, l’abbiamo già detto, una voce fuori dal coro è pericolosa, per se stessa e per chi non vuole sentirla. Proprio per la difficoltà che distingue la situazione di questi artisti, ciò che possiamo fare noi è non giudicare, non costringere, non pretendere. È facile, per chi guarda da fuori, atteggiarsi ad obiettori di coscienza per qualcuno che rischia la vita nel ‘fare la cosa giusta’. È facile, quindi, trasformarsi in obiettori d’incoscienza, che per sentirsi dire ciò che si aspettano mettono altri in pericolo in nome della pace. Prendo in prestito, qui, le parole di Teresa Simeone su MicroMega:
Sarebbe meglio lasciare che chiunque esprima le proprie posizioni: ciò darà più forza a chi le rispetta e molto, molto più valore a chi, pur nella condizione di subire la repressione, come i meravigliosi russi che stanno manifestando in questi giorni, non esita, in nome della libertà di coscienza e di espressione del pensiero, a marciare contro il proprio presidente e a venire arrestato e a tutti coloro, nello sport e nelle arti, che esprimono forte la propria contrarietà al conflitto.
E lo so che abbiamo parlato di negoziabilità, di mettere dei paletti, di aprirci all’Altro solo a patto di non rinunciare a noi stessi. E so che questo potrebbe sembrare un controsenso, ma non lo è. Mettere dei paletti non significa prendere le distanze in maniera assoluta, ma avere la flessibilità necessaria per dare un’occhiata senza essere inghiottiti dal vortice. Significa, ad esempio, saper esprimere solidarietà per il popolo russo e contemporaneamente condannare le azioni militari del loro Stato. Significa rendersi conto che le sanzioni alla Russia producono danni a una popolazione che non ha colpa per i crimini del proprio presidente, ma non per questo voltare le spalle a una risposta internazionale.
Significa, insomma, individuare come non-negoziabile ciò contro cui ci schieriamo. Complementarmente, essere in grado di lasciar fuori tutto ciò che con il nostro nemico condivide il nome, ma non le colpe.
Non si sta combattendo contro il popolo russo, contro la sua storia e la sua cultura. Non c’è mai un bianco e un nero, una tesi e un’antitesi meticolosamente definite, se non da questa folle necessità di dividere il mondo in due, di trovare sempre un nemico.
Mettiamocelo in testa, che l’arte e la cultura non devono essere veicoli di una morale, non devono essere spettri del passato che parlano al presente, non devono essere interpretate come aderenti e funzionali al contesto storico e culturale di appartenenza. Possono, certo; ma non devono. Tenere a mente questa distinzione ci permette non solo di rifiutare l’equazione ‘Russia = guerra’, ma anche di definire meglio quelle frontiere di non-negoziabilità che circoscrivono e direzionano la nostra elasticità.
Possiamo sempre sapere dove posizionarci? Certo che no. E mi piacerebbe, qui, introdurre quel secondo significato di ignoranza che avevo messo da parte all’inizio di questa newsletter. Quell’ignoranza del non saper ancora, un dubbio che presuppone una ricerca continua. Uno scetticismo provisionale che è solo una fase di un apprendimento costante, un continuo mettere alla prova le proprie convinzioni per uscire da quell’aura di sospetto e provare ad interagire con posizioni diverse.
In contesti come questi, cari lettori e care lettrici, non esiste quasi mai il bianco e nero. Non esiste una lettura senza se e senza ma, non esiste una condanna che, nella sua fermezza, non lasci lo strascico di un punto interrogativo. Guerra significa una grande distesa di zone grigie in cui è difficile muoversi, in cui ogni passo può essere falso, in cui non si può agire senza lasciare un’impronta dolorosa per chi la lascia e per chi ne viene schiacciato.
La cultura, però, è proprio un mezzo di solidarietà che permette di raggiungere quel necessario livello di apertura per condannare senza cadere nell’oscurantismo, per rifiutare un crimine e non un semplice nome.
Fare cultura è fare Politica. Con la P maiuscola, perché di politiche ce ne sono due. Nel suo senso originario, Politica (τά πολιτικά, ta politikà) sono le cose della città (πόλις, polis), e quindi le cose comuni. La radice πολ- (pol-), poi, significa molti: le cose politiche sono le cose di molti. In questo primo senso, Politica è comunità, unione, associatività.
Col tempo, però, il senso della politica si è rimpicciolito insieme a quella p che diventa minuscola, e la frammentazione dei partiti ha portato ad una politica che si nutre di fazioni, di divisioni, di antagonismo. È la politica del singolo o dell’élite, la politica del sospetto, del dualismo del noi contro di voi.
Fare cultura, quindi, è fare Politica, è prendere una posizione senza ignorare il resto, muoversi in una direzione chiara e inequivocabile ma affacciarsi al finestrino per guardare percorsi differenti, combattere l’oscurità tramite una nuova luce. Gettare del colore su quelle zone grigie, anche se a volte è pericoloso.
Sì, sapere è rischioso. Ma è anche ribelle, sovversivo, rivoluzionario.
È un atto Politico, e in quanto membri di una comunità siamo chiamati ad esercitarlo e a trasmetterlo.
Perché sempre l’ignoranza fa paura, ed il silenzio è uguale a morte.
Questa settimana vi proponiamo l’illustrazione di Marialinda, che la pensa come una metafora di saggezza, cultura, intelligenza. Tutti elementi che possono salvarci, come acqua nel deserto, dall’aridità e dal grigiore che vediamo sullo sfondo.
Le risorse di questa settimana (grazie a Laura, Serena e Francesco per i consigli):
Valerio Nicolosi, inviato sul campo per MicroMega, ha realizzato un podcast che ci porta con lui a conoscere le persone, vere protagoniste e vittime innocenti della guerra.
Per aggiornamenti quotidiani, anche Cecilia Sala è stata sul campo per raccontare la guerra, mentre Francesca Mannocchi è ancora lì.
Un esempio di guerra contro la cultura.
A mali estremi, estremi rimedi.
Volete fare un gioco contro la censura?
Oppure fare una chiamata?
La propaganda russa ha raggiunto anche TikTok. Ma anche la resistenza ucraina.
Sul ruolo dell’università come locus della resistenza.
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